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martedì 23 ottobre 2007

Mediastars - Atti della Tavola Rotonda "Made in Italy: Quale Comunicazione?"


Atti della Tavola Rotonda Mediastars del 30 Maggio 2007
<http://www.mediastars.it/>

Made in Italy
Quale Comunicazione?

Mercoledì 30 maggio 2007, in occasione della cerimonia di premiazione dell’XI Edizione Mediastars che si è tenuta presso l'Auditorium del Centro Culturale San Fedele di Milano, preceduta da una selezione di film di Carosello, provenienti dall’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa, si è svolta la Tavola Rotonda dal titolo: "Made in Italy: Quale Comunicazione?". Che si propone di discutere del rapporto fra Made in Italy e Globalizzazione nel settore della comunicazione.


L’Editore Giulio Rodolfo lancia provocatoriamente una serie di considerazioni su questo rapporto. La Globalizzazione è uno degli elementi più caratterizzanti della nostra epoca. Le nuove tecnologie stanno cambiando la nostra percezione di tempo e di spazio. Percepiamo un mondo senza confini, dove la maggior parte delle nazioni e delle popolazioni con culture diverse condividono lo stesso sistema mediale, diventando fruitori delle stesse immagini.

Al centro di questo processo è evidente il peso della Comunicazione, il cui obiettivo è quello di influenzare gli atteggiamenti verso la marca nel mediolungo periodo o modificare nel breve i comportamenti a favore di determinati prodotti. Comunicare in un mondo globalizzato è certamente molto diverso dal comunicare in un ambiente delimitato da rigidi confini territoriali.

Cambiano i mezzi, i contenuti, la sensibilità, i gusti e l'approccio degli attori e spettatori di questo processo. Quello che conta però non sono più le merci, beni o servizi, ma la percezione dei valori simbolici di cui vengono caricati, e l’intensità di questi simboli. Nasce la cultura Glocal: l’interagire su un unico piano di modelli culturali differenti che convivono generando un circolo virtuoso di connessioni e di reciproche influenze, pur mantenendo salde le peculiarità su cui ciascuno di essi si fonda.

Non si potrebbe parlare di Made in Italy se non ci fosse una cultura del luogo pensata a livello locale e agita all’esterno. La Globalizzazione, dunque, non è un fine, ma uno strumento dello sviluppo umano. Pensa localmente e agisci globalmente, sembra essere la ricetta per rilanciare l'economia Made in Italy e orientarci verso la qualità, valorizzando la nostra identità come paese capace di incorporare nel prodotto un’alta dimensione estetica, oltre ad una storia e una cultura unica al mondo. Intanto il falso Made in Italy dilaga, utilizzando parole, colori, e immagini, che richiamano l’Italia pur non avendo nulla a che fare con la realtà nazionale, determinando spesso danni economici e di immagine alla produzione nazionale, e in definitiva confondendo i consumatori.

Questo appuntamento fa parte di una serie di iniziative dell'Editore con l'obiettivo di ricercare le possibilità di sinergia e interazione fra il mondo accademico e la realtà delle agenzie che operano con le aziende nel campo della comunicazione pubblicitaria.

In particolare questo appuntamento è stato un'occasione di confronto tra rappresentanti del mondo dell’industria, della realtà accademica e l’universo delle professioni creative, ambiti la cui interazione è oggi essenziale per lo sviluppo del settore della comunicazione.

L’iniziativa è stata salutata da un buon successo di pubblico molto attento ai temi proposti e interessato a conoscere gli ulteriori sviluppi del dibattito.

Il nostro ringraziamento è rivolto a tutti gli operatori del settore della comunicazione che hanno supportato l’ iniziativa partecipando sia in veste di relatori sia in veste di auditori a questa tavola rotonda rivolta a sensibilizzare le diverse realtà del mondo della comunicazione.

Il moderatore dell'incontro, Roberto Panzarani, è docente di "Psicologia delle organizzazioni" presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila.
"Innanzitutto ringrazio l’editore per avermi invitato anche quest'anno a questo atteso appuntamento. A proposito del filmato di introduzione che abbiamo visionato, che raccoglieva una selezione di spot andati in onda per Carosello, nel periodo degli anni 60/70, e a proposito della Globalizzazione e del Made in Italy che sarà il tema principale di quest’incontro, vorrei portare alla vostra attenzione come questo modo di rappresentare il nostro Paese ci aiuti a capire, come emerge anche dai vari editoriali del nuovo Annual Mediastars, come la globalizzazione ridisegni alcuni specifici ruoli per ciascun paese, e come questo riporti ogni paese a concentrarsi sul proprio core-business. Il Made in Italy è conosciuto in tutto il mondo ed è necessario che diventi importante anche per noi stessi, come fosse un atto di autocoscienza, per tornare ad essere competitivi sul mercato e conquistare la dovuta importanza in questa dimensione di competizione globale.”

Mariangela Michieletto

Direttrice scientifica dell’Archivio Nazionale Cinema d’ Impresa-CSC a Ivrea.

"Saluto tutti e ringrazio per l’invito. Questa è una delle prime occasioni in cui presento il nuovo Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa, inaugurato lo scorso 21 novembre a Ivrea e nato grazie ad una convenzione istituita tra il Centro Sperimentale di Cinematografia, Regione Piemonte, Telecom e Comune d’Ivrea.

Abbiamo cominciato raccogliendo collezioni di grandi industrie come Fiat e Montedison, attualmente già depositate presso di noi, importanti imprese italiane che hanno cominciato molto presto a documentare la propria vita con filmati e documentari industriali.

Facendo altri esempi, attualmente sta arrivando la collezione Olivetti, mentre abbiamo già le collezioni di: Enea, AEM (Azienda elettrica milanese), Innocenti, Breda e di due grandi case di Produzione quali la Recta film e la Filmmaster.

Il documentario industriale è un filmato commissionato da un’impresa, non con il diretto fine pubblicitario di vendere uno specifico prodotto, ma di spiegare le modalità di produzione e di documentare le molteplici attività dell’industria committente..

Possiamo così definire le sette categorie del documentario industriale solitamente presentato ai festival specifici del settore:

1 - film su temi industriali di interesse generale e diretti ad un pubblico generale
2 - film che presentano una specifica produzione e diretti ad un pubblico generale
3 - film che contribuiscono al prestigio di un settore industriale o di un’impresa, destinati ad un pubblico generale
4 - film su particolari materiali o lavorazioni industriali destinati ad un pubblico specializzato
5 - film didattici e scientifici
6 - film per la formazione della classe dirigente e del personale
7 - film per la prevenzione di infortuni, malattie

Tra queste categorie manca il film pubblicitario.

Ma il documentario industriale di fatto vuole vendere l’immagine di un’azienda e della sua produzione e vuole formare una categoria di pubblico con specifiche conoscenze, per fare in modo che acquisti successivamente il prodotto visto nei filmati.
Un’altra possibilità è considerare come cinema industriale, cinema d’impresa tutta la produzione filmica relativa ad un’azienda, includendo in questo modo anche la pubblicità.

Nella selezione di filmati presentati questa sera abbiamo visto, tra gli altri, un carosello sul Moplen della Montedison, uno spot della Fiat con i Brutos e la pubblicità dell’Innocenti con Kuko il leoncino, disegnato da Bruno Bozzetto.

Cosa accomuna le nostre collezioni? Una cosa molto importante. Sono Made in Italy, per citare il tema dell’incontro, e ci offrono uno spaccato interessantissimo della società e del momento in cui sono stati prodotti. Ci fanno capire le tendenze dell’epoca, il pubblico a cui ci si rivolgeva e ciò che il pubblico si aspettava.
In questa selezione di filmati, la maggior parte dei quali prodotti negli anni sessanta, abbiamo visto diverse tecniche di animazione. Le ombre cinesi in particolare hanno un buon effetto cinematografico.
Questi spot pubblicitari sono un’importantissima testimonianza storica che presenta molteplici chiavi di lettura. Personalmente come archivista potrò fornirne qualcuna, come addetti al settore della pubblicità voi potrete invece leggerli in maniera più ampia, per cui lascio a voi ulteriori interpretazioni..

Nel nostro archivio sono presenti svariati marchi per ogni sezione merceologica: settore alimentare (Findus, Algida, Perugina, Colussi, Cipster, Centrale del latte di Roma, caffè Caramba, Bauli, Vismara, Barilla), mezzi di trasporto (Fiat, Piaggio, Ford, Innocenti, Honda, Alfa Romeo, Magneti Marelli), prodotti di bellezza (Cleanex, Gillette), prodotti per la pulizia per la casa (Bio Presto) e altre sezioni come agricoltura, ricerca sul cancro,ecc. L’elenco sarebbe molto lungo e l’ho sintetizzato brevemente per farvi venire voglia di venirci a trovare. Le collezioni sono consultabili in sede, basta contattarci e dirci cosa vi interessa. La lista è molto più ampia di quella citata. Grazie e arrivederci."

Pasquale Barbella

Docente di comunicazione pubblicitaria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano e il Master di Comunicazione Aziendale UPA-Ca’ Foscari di Venezia. Alla Pubblicità dedica 36 anni di attività come copywriter, direttore creativo e coordinatore creativo di network internazionali. È stato per due volte presidente dell’Art Directors Club Italiano.

"Scusatemi se rovescio la domanda: “Comunicazione. Quale Made in Italy?”. Perché intorno a me io non vedo uno, ma due, tre, quattro modelli possibili di Made in Italy. Vedo, naturalmente, il modello più consolidato, quello descritto come “sistema di vita fatto di arte, tradizione, moda, enogastronomia e riconosciuto nel mondo come evocatore di fascino, qualità, fantasia.” Ma questo modello, che tante soddisfazioni ci ha procurato e continua a procurarci, forse non basta più. Sento che ha bisogno di essere ampliato e aggiornato se vogliamo essere competitivi, amati, rispettati, vincenti.

Poi leggo i giornali e scopro, per esempio, che da una recente inchiesta risulta che gli italiani sono tra i turisti più maleducati del mondo. La buona compagnia di francesi e inglesi non basta a lenire il mio orgoglio ferito. Dunque esiste anche una specie di “antimodello”: l’Italia esporta eleganza e fantasia ma anche scampoli di antica e persistente cialtroneria.

E non finisce qui: che idea diamo del nostro paese quando vediamo intere regioni ridotte a una immensa discarica di rifiuti; quando esibiamo una classe politica rissosa, vociante, costantemente aggressiva; quando persino la passione sportiva si tinge di criminalità; quando la scuola, l’università, la ricerca sembrano da anni abbandonate a se stesse, mentre dovrebbero essere le officine in cui si forgiano la nostra competenza, la nostra credibilità, il nostro avvenire?

Penso all’economia globale, ai problemi delle nostre imprese, al nostro futuro in un mondo che cambia, e vedo molto nero ma anche scintille di luce – il lavoro e le idee, non sempre visibili, di una costellazione di piccole aziende solide e creative: che siano queste il vero indizio da seguire per affrontare con coraggio e determinazione le sfide della contemporaneità?

Made in Italy non è un’isola separata dal paese. Non può più essere soltanto l’etichetta di un abito griffato, di una bottiglia di vino di qualità superiore, di una rendita culturale e artistica proveniente da epoche lontane ma che non riusciamo a preservare e coltivare come dovremmo. Made in Italy è la nostra complessa, sfaccettata, contraddittoria identità di italiani confusi, brillanti quanto si vuole ma aperti solo in parte alla comprensione del nuovo.

Da pubblicitario (o ex pubblicitario) posso solo dirvi che mi sentirei imbarazzato a comunicare un prodotto che non mi convinca appieno. Comunicare il made in Italy è come comunicare l’Italia – prodotto meraviglioso, sì, ma che oggi mi appare un po’ avariato e bisognoso di cure.

Direte: non siamo venuti qua per ascoltare un tizio che ci rovescia addosso secchiate di pessimismo. Direte: adesso che ci hai assillato con le tue idiosincrasie, avanza qualche proposta: di comunicazione, per favore, perché comunicare è il tuo mestiere.

Una cosa sola mi sento di dire, una esortazione agli imprenditori e ai manager presenti in sala. La maggior parte della comunicazione d’impresa che si vede in giro – a cominciare dalla pubblicità – non riflette nel modo migliore la vostra identità e i vostri progetti. Se credete nel vostro lavoro e nell’azienda che rappresentate, ricordatevi che agli occhi del mondo siete quelli di quello spot, di quel manifesto, di quel catalogo, di quella pagina, di quel sito sul web. Non accettate idee di comunicazione che non siano all’altezza della reputazione desiderata. E, soprattutto, non accettate idee di comunicazione che si brucino nello spazio di una settimana o di pochi mesi. Abbiate l’ambizione e il coraggio di costruire, o di farvi costruire su misura, una case history degna di essere sviluppata e ricordata negli anni che verranno; altrimenti dovrete inventarvi con fatica, giorno per giorno, la piccola soluzione al piccolo problema del momento.

Perché questo, soprattutto, deve intendersi per “Made in Italy”: lungimiranza, volontà e capacità di progettare il futuro. Futuro: la parola è abusata, ma il concetto sembra in declino, divorato com’è, più spesso di quanto non si creda, da una sorta di panico, dall’impulso di incidere sull’immediato. Ricordatevi che la comunicazione è un’alleata ambigua: può portarvi alle stelle, o confinare voi e il vostro lavoro nel modesto limbo della routine".

Mirko Nesurini

Amministratore delegato di GDS. Consulente con un profilo internazionale ha diretto incorporazioni e fusioni di aziende occupandosi del brand management. Ha pubblicato articoli, studi e libri sul branding tra cui l’ultimo nel 2007 “Good Morning Mr Brand” (Hoepli, Milano / Rank Books Singapore).


“Mi presento affermando che sono molto positivo sull’Italia e sul Made in Italy in generale. Esprimo questi sentimenti da “non italiano” che vive in questo paese solo da pochi anni.

Nella mia breve esperienza professionale ho fatto molti viaggi all’estero. In particolare in questo momento con la nostra società stiamo vivendo un’importante esperienza a Singapore e ad Hong Kong lavorando su brand asiatici che hanno intenzione di muoversi nel mondo.

Il mondo è alla ricerca di messaggi. L’Italia è sicuramente tra i grandi paesi che hanno dei messaggi da offrire. Quello che colpisce del Made in Italy è la grande forza che il Paese trasmette fuori dall’Italia stessa e dall’Europa. Fantastico è pensare a come cambiano le prospettive a questo riguardo quando si incontra un imprenditore asiatico. Devo dire che io contrabbando volentieri questo argomento parlandone sempre molto e portando con me valori che sono quelli della simpatia e dello stile italiani.

In Italia non siamo gli unici a dibattere circa il valore dei nostri “prodotti”, quasi tutti i paesi in questo momento lo stanno facendo con i loro prodotti: Dubai, gli Emirati, Singapore, la Cina. Attualmente la Cina sta investendo moltissimo in tre importanti eventi. Il primo è quello che stiamo osservando con l’entrata della Cina nel circuito mondiale di automobilismo di Formula Uno, il secondo è relativo ai Giochi Olimpici del prossimo anno, che rivoluzioneranno fortemente il paese, il terzo e ultimo riguarda l’Esposizione Internazionale a Shangai nel 2010. Tutto ciò riporterà una grande immagine della Cina come paese organizzatore, che sa gestire e supportare grandi eventi mondiali, e centrerà un obiettivo concreto: portare all’attenzione di tutti il Made in China, per cambiare quella percezione negativa nei loro confronti che tutti noi abbiamo ancora. Così adesso possiamo avere dalla Cina un messaggio positivo.

Invece, sul Made in Italy, non abbiamo questo obiettivo; parliamo della bellezza dei paesaggi, delle mozzarelle, di altri prodotti alimentari, di Geox, di grandi brand, ma non sappiamo bene perché ne parliamo. A questo proposito suddividerei il panorama in due grandi aree: laddove c’è una marca, un brand, un nome conosciuto; e laddove non esiste nessuna marca conosciuta.
Dove c’è un brand, l’elemento Made in Italy, è qualcosa in più, un valore importante, la connessione tra prodotto e marca già esiste. Per questo motivo l’aggiungere Made in Italy costituisce un valore a favore del brand, ma certo non la “carta vincente”. Il Made in Italy, laddove non ci sono dei nomi di marca, ma piccole imprese che hanno necessità di posizionarsi nel mondo e abbattere quelle barriere di ingresso che ancora esistono. In quei casi il Made in Italy diventa il brand portante di accreditamento, poi come sottoelemento, subentrano i distretti industriali che in Italia sono qualcosa di molto importante.

Volendo portare un elemento di dibattito concreto, vi presento alcune ricerche sviluppate negli ultimi tempi. La prima ci parla dell’impatto territoriale del termine Made in Italy nel mondo intero. Possiamo notare in particolare che per il Nord America lo stile Made in Italy è un elemento determinante: il 59% infatti lo ritiene rilevante, in Asia il 41%, in Medio Oriente quasi nessuno e nella vecchia Unione Europea il dato è dell’85%. Dalle letture di questi dati si desume che in alcuni mercati il Made in Italy funziona come strumento di comunicazione. Un’altra ricerca sviluppata da Eleonora Cattaneo dell’Università Bocconi ci descrive il valore del Made in Italy con un focus sull’importanza dei distretti industriali di cui parlavo prima.

A questo proposito vorrei riflettere con voi su un elemento: quanto “agisce” nel processo di acquisto il Made in Italy? Lo vogliamo considerare quale fattore che agisce nella prima fase? Sul cliente finale? Oppure sulle catene di distribuzione? Il primo elemento che emerge dalla ricerca della Cattaneo è che il Made in Italy è fattore percepito dal cliente finale e non per la catena di distribuzione. Questo ci porta a pensare come potrebbe essere utile utilizzarlo meglio nella comunicazione verso il cliente finale. Un altro dei punti toccati dalla ricerca mostra come questo funzioni estremamente bene sul primo acquisto ma non sugli acquisti successivi. Questa dunque è una carta che giochiamo una volta proficuamente e poi possiamo anche pensare ad altro.

Le associazioni mentali sul Made in Italy, sono la creatività, la flessibilità, e lo stile. Terminerei la mia riflessione sui limiti: dove si sbaglia in ambito di promozione Made in Italy? Sono stati intervistati alcuni imprenditori per cercare di delineare gli aspetti in cui possiamo avere dei margini di miglioramento. Questi margini possono essere percepiti nella comunicazione; non nel packaging, nella simbologia, dei prodotti o dei servizi, ma nella loro comunicazione.

Mi sembrano dati significativi perché essendo voi dei colleghi che si occupano di divulgare nomi di marca e di prodotto, siete il pubblico ideale per recepire queste informazioni. Vorrei concludere dicendo che il Made in Italy deve trovare un proprio obiettivo: dobbiamo capire “perché andare per il mondo a dire che determinati prodotti sono fatti in Italia.”

Giorgio Monaci

Direttore del Settore Attività Economiche e Innovazione della Provincia di Milano dal 2004. Vanta una pluriennale esperienza di ricerca nel campo dello sviluppo economico e dei sistemi formativi di alto livello. E' stato Project Leader di numerosi progetti dell’Unione Europea e consulente del Governo Italiano per le politiche regionali e per le politiche sociali.

“Vorrei ringraziare l’editore per avermi invitato per questa interessante occasione di riflessione sulle politiche di supporto al Made in Italy da parte delle istituzioni pubbliche.

Vorrei partire con alcune considerazioni introduttive prima di darvi qualche informazione su quelle che sono appunto le attività e le misure di sostegno che la pubblica amministrazione nel suo complesso mette a disposizione o tenta di mettere a disposizione del settore.

Sono rimasto molto colpito dalle proiezioni che abbiamo visto. Il riferimento agli anni 50/60 è un riferimento ad un momento straordinario in cui il nostro paese è stato capace di mettere insieme alcuni elementi che hanno permesso la capacità competitiva dell’Italia che, ricordo, aveva in quel periodo tassi di crescita tra i più elevati del mondo.

Per la prima volta in quegli anni si è riusciti a coniugare innovazione di prodotto, design e nuove modalità di comunicazione. Tre elementi che per la prima volta si sono saldati creando un sistema produttivo nuovo ed efficace. Non è un caso se voi avete visto tra i vari spot, quello che presentava Moplen. Vorrei ricordarvi che Moplen è un prodotto frutto della ricerca scientifica che è valsa a Giulio uno dei pochissimi casi di premio Nobel italiano e bella fattispecie milanese. Natta ha in pratica “inventato” la plastica, qualcosa che ha rivoluzionato il mondo; una innovazione tecnologica che arrivava dall’università e si era trasferita nella produzione. Questo è l’elemento veramente forte che ha costituito la competitività del paese.

Poi è successo che il modello produttivo è cambiato, si è fatto avanti il modello dei distretti industriali, altro elemento di forza di questo paese che ha caratterizzato l’economia degli anni ottanta e novanta. Qui sono stati altri vantaggi che hanno consentito la competitività del nostro paese: la piccola dimensione, la flessibilità, la capacità di adattamento e di innovazione delle aziende italiane in genere.

Attualmente viviamo una situazione che ci pone sfide incredibili perché stiamo percependo il cambiamento che ci impone la globalizzazione. Gli stessi distretti industriali oggi sono in profonda crisi. Quello che era stato l’elemento di competitività, la piccola dimensione, oggi potrebbe essere un elemento di rischio per questo paese. Nel senso che la piccola dimensione è poco capace di competere sui mercati internazionali perché non riesce a creare reti ed allenze soprattutto sul fronte della riceca e sviluppo.

Ecco dunque perché è fondamentale che le politiche pubbliche non solo capiscano, ma abbiano una visione progettuale rispetto a quelli che sono i temi che ci vedono protagonisti.
Il Made in Italy nella sua forma di brand di comunicazione mondiale è un elemento di forte vantaggio, ed è anche un fenomeno che ha una solidità economica perché in genere corrisponde ad una filiera produttiva che è fatta di produzione e commercializzazione.

Tuttavia occorre essere consapevoli che non possiamo permetterci di giocare solo sul valore aggiunto della comunicazione o il valore aggiunto della capacità di pubblicizzare un prodotto se non siamo in grado di stare sui mercati con prodotti innovativi. Per fare un esempio concreto non possiamo stare sul mercato globale con i prodotti alimentari tipici italiani se non disponiamo di una catena distributiva di un certo tipo, un sistema di supporto alla commercializzazione ec….. Quindi ecco che l’elemento di sola comunicazione non può reggere un sistema economico.

Cosa può fare il pubblico rispetto a questo? Direi che un punto di svolta sicuramente lo si può trovare nel programma di questo Governo che ha lanciato un progetto, Industria 2015, un modo diverso di approcciare la questione degli incentivi, con l’idea di evitare, per esempio, gli incentivi a pioggia, soffermandosi invece su alcuni grandi filoni, tra i quali ci sono l’energia, le biotecnologie e le scienze della vita, l’ICT e specificatamente il “made in Italy”. Questo significa che ci sarà un unico grande pacchetto di agevolazioni che sarà inquadrato dentro un'unica progettualità. In questo modo tutto il sistema degli incentivi sarà ridisegnato.
Su scala locale, la Regione Lombardia ha individuato nelle sue politiche di sostegno al settore industriale, l’idea di concentrarsi su alcuni filoni, con una politica meta-distrettuale, con l’idea che il distretto non sia un elemento di carattere territoriale ma un elemento di filiera che va sostenuto in tutti i suoi aspetti. Uno di questi meta-distretti è quello della moda e del design, con la relazione che ha con il sistema della produzione.

Personalmente credo che l’investimento grosso che dobbiamo fare sia sul capitale umano. Significa per esempio la valorizzazione di tutte quelle professionalità come la vostra, che hanno una strutturazione diversificata. Noi abbiamo lanciato due edizioni, e ne faremo una terza, di un bando di sostegno e di finanziamento per la nascita di nuove imprese nel settore della creatività, dando dei contributi a progetti che riguardano tutto il filone della creatività con l’idea di trasformare alcune professioni in una realtà di tipo aziendale e quindi avendo come obiettivo una crescita dimensionale, che dia competitività al sistema.

Questo è un filone su cui noi continueremo. Altrettanto importanti sono la cultura delle reti e mettere in comunicazione imprese e professionalità. Non a caso stiamo puntando sulla creazione di community in modo di scambiare idee e opportunità di mercato. Occorre che questi elementi di imprenditorialità diffusa e fatta dalle giovani generazioni, puntino al mercato internazionale. Un’impresa o nasce globale o non ha destino, non ha futuro. Questi sono i temi su cui stiamo orientando la nostra azione.”

Marco Nardini

Docente di Disegno Industriale presso l’Università La Sapienza Di Roma, Facoltà di Architettura Valle Giulia, del Corso di Laurea in Grafica e Progettazione Multimediale.

“Riflettendo su una serie di punti che stanno qui emergendo in maniera chiara, penso che la domanda in fondo consista nel chiedersi se quello che noi chiamiamo Made in Italy sia una realtà definibile nella sua completezza, nel senso che non sia soltanto un fatto legato ad un’immagine, ma rappresenti invece un intero sistema produttivo.

Infatti, mi sembra di aver notato negli interventi precedenti, che il problema fondamentale consista nel capire come una serie di esperienze, che non sono necessariamente legate soltanto al momento storico attuale ma che nascono anche nell’evoluzione storica che la creatività italiana in qualche modo ha dimostrato, soprattutto dal dopoguerra ad oggi, trovino una loro consonanza, un’armonizzazione. Il problema fondamentale è quello di capire come questa serie di elementi che si avvertono nel sistema, possano costituire effettivamente un sistema coerente.

Personalmente, dall’esperienza che ho sia a livello universitario, sia nelle occasioni in cui mi sono trovato a confrontarmi con realtà italiane di altissimo livello creativo, ho potuto constatare che l’elemento debole attualmente sia quello dell’innovazione tecnologica. A mio parere questo è un punto su cui purtroppo l’Italia si muove in maniera poco coerente.

Precedentemente assistendo al carosello Moplen, mi è venuto in mente un’azienda, la Novamont, che produce una plastica biodegradabile: anche quello è un brevetto italiano, anche quello è Made in Italy. Considerare dunque il Made in Italy solo una questione di immagine è limitativo. Credo che si possa trovare il modo di far sì che questa creatività diffusa si dimostri, con punte di eccellenza anche nelle manifestazioni del prodotto italiano all’esterno del nostro paese.

Vorrei infine citare un evento organizzato da creativi italiani a cui mi è capitato recentemente di partecipare, un’iniziativa denominata Italian Reinassance, che ha visto la partecipazione di professionisti della comunicazione facenti parte di aziende come Vodafone, Mtv...

In realtà quindi il prodotto italiano, aldilà di quello che appare, è molto più presente all’estero di quello che si può avvertire e penso che il punto fondamentale da chiarire, e che richiede impegno da parte delle istituzioni e del settore produttivo, sia effettivamente l’efficacia di questo sistema di interazione e collaborazione, di scouting e scoperta di quelle che sono le eccellenze, che talvolta possono essere veramente inaspettate e nascoste.

Credo dunque che innovazione, flessibilità e rete siano le parole chiave di questo passaggio.Questi gli elementi che, senza nulla togliere all’immagine del Made in Italy, oggi sono più che mai necessari affinché il Made in Italy stesso diventi qualcosa che non sia solo un marchio più o meno riuscito.”

Maddalena Bersi Serlini

Consegue presso l’Università L. Bocconi di Milano un Master sul vino - Corso in tecniche di comunicazione. Consegue uno Stage presso la Maison de Champagne alla Ruinart (Reims). Dal 1997 ad oggi lavora presso l’Azienda Agricola Bersi Serlini, per laProduzione e vendita vini di Franciacorta (commerciale, trattative clienti direzionali; accoglienza clienti e visite in cantina; responsabile produzione; coordinamento con Agronomo ed Enologi; attualmente è Amministratore delegato dell’azienda agricola.

“Proverò, insieme a voi, a capire come mai sono stata chiamata qui a testimoniare il Made in Italy. Io un’idea me la sono fatta ma vorrei ragionare con voi. Bersi Serlini è il nome di quest’azienda, un’azienda vitivinicola di circa 200.000 bottiglie. Vitivinicola significa che l’azienda produce vini con le proprie uve, 200.000 bottiglie, che sembrerebbero tante ma sono solamente il quantitativo di un’azienda piccola. Non si tratta dunque di una nota azienda di marca ma di un piccola azienda che può qui rappresentare l’universo delle aziende vitivinicole italiane.

È un’azienda situata in un bellissimo posto, qui in Lombardia, nella Franciacorta. È un’azienda che quarant’anni fa produceva, come tutte le aziende della zona, vini rossi. All’epoca i vini erano un fabbisogno, erano parte dell’alimentazione, mentre oggi sono solo un piacere e null’altro. Infatti non abbiamo bisogno per la nostra alimentazione di bere vino.

Cosa si decise di fare? Attraverso degli studi collegati all’Università, si decise di non produrre più vini rossi, ma di produrre un vino a bollicine. A quel tempo e forse anche oggi, nei consumi avevamo al primo posto il vino rosso, al secondo posto il vino bianco, e solo al terzo posto il vino con le bollicine, consumato quindi per lo più per matrimoni, a Natale, a Pasqua, e in qualche altra occasione speciale.

La mia testimonianza racconta come la nostra azienda abbia cercato, senza compromessi, di puntare sulla qualità. Quello che possiamo fare consiste nel produrre uva di qualità e vini di qualità, non ci sono altre alternative perché questo è il fattore che poi potrà determinare la fama della nostra azienda.

Guardandola oggi, si trattò di una scelta azzardata molto forte, decidendo di produrre quello che meno si consumava. La mia azienda produce quello che oggi si chiama Franciacorta, poichè siamo riusciti ad ottenere che il vino prendesse il nome dal territorio. Non si chiama quindi spumante, ma Franciacorta, e questo è stato un grande successo, ed è quindi necessaria una comunicazione adeguata che lo sappia raccontare. Abbiamo riflettuto per trovare la nostra potenzialità e capire quali fossero gli aspetti su cui puntare poiché non siamo un’azienda di marca che può vendere in tutto il mondo, né forse in tutta Italia. Questa profonda analisi ci ha fatto riscoprire il genius loci, ovvero lo spirito del nostro luogo, per trovare la nostra identità, il nostro racconto, la nostra storia. Per fare questo abbiamo raggiunto il primo obiettivo, cioè l’identità. La nostra azienda vitivinicola si trova in una zona paesaggisticamente molto bella e ha quindi piacere nel legare il territorio alla propria comunicazione.

Pensate che un bicchiere di Franciacorta, a seconda della compagnia in cui ci si trova, lo si può bere in cinque o dieci minuti, ma dietro c’è un lavoro di almeno trentasei mesi. Come fa una persona a saperlo? Lo si scopre attraverso questa forte curiosità che negli ultimi anni, grazie a riviste e trasmissioni, esiste intorno al vino di qualità. La sinergia col territorio è importante, per cui nella nostra azienda le visite guidate fanno conoscere tutto il processo di lavorazione del prodotto, partendo dai vigneti e arrivando fino al bicchiere, raccontarlo per voi diventerà importante per il vostro piacere di bere una bottiglia di Franciacorta.

Si tratta di un vino che non può essere venduto in tutto il mondo e in questo senso potremmo mettere in controetichetta che è un vino 100% italiano, Made in Italy, e questo è un fattore che comporta una certa esclusività. Ed è su quello che dobbiamo puntare senza alcun dubbio e senza alcun compromesso. Questa è la nostra azienda, queste sono le aziende vitivinicole italiane. Dunque il motivo per cui sono stata chiamata qui a raccontarvi questa mia esperienza è per far capire a tutti voi quello di cui noi abbiamo bisogno, perché da soli noi non possiamo continuare. Abbiamo bisogno che il prodotto italiano sia legato al suo territorio.”

Riccardo Taverna

Esordisce in Policonsult wlf, società di formazione del personale, dopo un'esperienza in MGD & Associates, una delle prime agenzie italiane specializzate nella comunicazione finanziaria e nelle Investor Relations, approda in Dow Jones Markets Italia, Information Provider economico finanziario. Nel 2003 costituisce B2 Comunicazione, società di consulenza e di ricerche di mercato, che si propone di per misurare il contributo della comunicazione alla creazione del valore e di rendere "tangibili" gli " asset intangibili" attraverso metodologie innovative. Nel 2006 B2 Comunicazione, Aida Partners e Legambiente costituiscono Ethics2Business, struttura di consulenza in CSR fondata sulla sua concretezza e sulla misurabilità del suo contributo alla creazione del valore di impresa.

“Questa sera sono stato chiamato ad intervenire sul tema della Corporate Social Responsibility (CSR) nel contesto del Made in Italy e della sua comunicazione. Tracciare una relazione tra Made in Italy e CSR può sembrare complesso ma alla fine scopriremo che esiste ed è importante. Prima di affrontare il tema della CSR occorre definirne il perimetro. Forse allora è meglio partire da che cosa non è responsabilità sociale. Si tende a dire che la responsabilità sociale di impresa sia sostegno ad una Onlus, oppure tutela dell’ambiente inquinando meno: non è solo questo. La CSR è un modello di governo dell’impresa basato su relazioni cooperative ed eque con gli stakeholder ossia i portatori di interessi: le risorse umane, le comunità locali, le istituzioni, i clienti, i fornitori, gli azionisti eccetera.

Detto questo, il limite della CSR è che si tratta di un sistema volontario del quale si parla molto e spesso con grande confusione, in generale solo dal punto di vista filosofico senza mai scendere nel concreto.

La nostra iniziativa Ethics2Business nasce per dare concretezza alla CSR, per cercare di rendere misurabile il suo contributo alla creazione del valore d'impresa. Per farlo abbiamo unito le forze di B2 Comunicazione, che io rappresento e che si occupa di consulenza di comunicazione e ricerche di mercato, Aida Partners, una società di relazione pubbliche che si occupa di comunicazione consumer e progetti ambientali, e Legambiente.

Insieme abbiamo creato Globaletica, il progetto che ha l’ambizione di rendere concreta la responsabilità sociale facendo sì che le imprese si pongano degli obiettivi di miglioramento concertati con gli stakeholder vincolandosi ad essi attraverso un contratto. Perché firmare questo contratto? Si tratta di un contratto in funzione del quale l’impresa si assume la responsabilità di raggiungere gli obiettivi in un determinato tempo impegnandosi a pagare una sanzione nel caso non dovesse raggiungerli. Il contratto è firmato con Legambiente, rappresentante degli stakeholder, la quale incassa la penale impegnandosi ad impiegarla in uno specifico progetto definito nel contratto.

Il progetto Globaletica si propone anche di cercare di identificare le relazioni tra responsabilità sociale e valore d’impresa. Per fare questo abbiamo creato un modello di percezione chiamato Social Responsibility Reputation (SRR), presentato nel dicembre del 2006, attraverso il quale è possibile intervistare tutti gli stakeholder, per capire come reagiscono e percepiscono la responsabilità sociale: se cioè sono sensibili alle attività di CSR o meno, se la loro relazione con l'impresa si modifica e come il modificarsi della relazione influenza il valore d’impresa.

Vi leggo le dimensioni principali del modello SRR che ci aiutano a capire se esiste un’effettiva relazione tra CSR e qualità. Confrontandoci con imprese, stampa, ambienti istituzionali e universitari, abbiamo identificato le 7 dimensioni principali della CSR nella Corporate Governance (i sistemi di gestione), nella ricerca (la capacità dell’azienda di innovare), nell’impatto ambientale, nel rapporto tra l'azienda e le risorse umane, nello stakeholder engagement (ovvero la capacità di coinvolgere e ascoltare gli stakeholder), nella finanza e nella capacità dell’impresa di creare progetti sostenibili, e nella corporate citizenship che comprende charity, rapporti con le Onlus, volontariato, marketing sociale. Attraverso il modello SRR possiamo dire al management delle imprese se sta comunicando efficacemente la sua responsabilità sociale e come gli stakeholder reagiscono al fatto di interagire con un’impresa socialmente responsabile.

Passando al tema della qualità, vorrei raccontare l’esperienza di Symbola, la fondazione per le qualità italiane, istituita per promuovere il concetto di qualità italiana e che vuole consolidare e diffondere il modello di sviluppo della soft economy dove, cito testualmente: "i territori incontrano le imprese, dove si stringono alleanze tra i saperi, le nuove tecnologie, la tradizione e dove la competitività si alimenta di formazione, di ricerca, di coesione sociale e rapporti positivi con le comunità".

Mi piace riportarVi una citazione di Carlo Maria Cipolla molto amata in Symbola. Cipolla, un’economista italiano del 1922, sosteneva che "il segreto del miracolo italiano è stata la capacità di produrre all’ombra dei campanili prodotti che piacciono al mondo".

Qual’è dunque l’idea di qualità che Symbola sostiene e promuove? È che la qualità che nasce dal rapporto tra territorio, arte, bellezza e cultura. Sabato scorso Symbola ha presentato a Milano il PIQ (Prodotto Interno Qualità), il tentativo di Symbola e di un gruppo di ricercatori presieduti dall’ex ministro dell’economia Domenico Siniscalco, di rendere concreto il concetto di qualità.

Le cinque dimensioni fondamentali del PIQ sono la qualità ambientale e il legame con il territorio, la qualità delle risorse umane, la qualità dell’innovazione, la qualità del posizionamento, la qualità come competitività. PIQ e SRR condividono ben quattro dimensioni. E’ per questo motivo che possiamo sostenere che la relazione tra qualità e responsabilità sociale è stretta.

Tornando al PIQ, è stato calcolato che la produzione di qualità rispetto al prodotto interno lordo italiano è del 44,3 %. Inoltre, tra le dimensioni del PIQ, quella che ha il rating più basso è la qualità come competitività. Secondo gli esperti del Prodotto Interno Qualità, questo è dovuto all’incapacità del sistema italiano, e non alla singola impresa, di far percepire concretamente la qualità sui mercati, soprattutto internazionali.

Questo non è altro che un problema di comunicazione; e così abbiamo chiuso il cerchio della relazione tra CSR, qualità e comunicazione.

Per cui, concludendo, dal mio punto di vista il mondo della qualità italiana sta lanciando una sfida al mondo della comunicazione. Il mondo della qualità italiana chiede una comunicazione che sia tanto alta quanto i prodotti che deve comunicare, una comunicazione che trasmetta i valori dell'italianità e contribuisca ad affermare la reputazione delle imprese e degli uomini che le hanno fondate. Una sfida che noi, B2 Comunicazione e Aida Partners, abbiamo raccolto con Ethics2Business convinti che la CSR sia un fattore determinante della qualità, una sfida che rilanciamo al mondo intero della comunicazione. Siamo convinti che il successo del Made in Italy passi anche attraverso una corretta comunicazione dei valori che sottostanno al Made in Italy stesso.”

Al termine dell’ultimo intervento dell’incontro riprende la parola Roberto Panzarani, moderatore dell’incontro: “Ringrazio tutti i relatori per i loro contenuti, con un ringraziamento particolare a Giulio Rodolfo che ha raccolto attorno a questo tavolo diversi aspetti legati a Made in Italy e alla comunicazione veramente difficili da riunire.”

RingraziandoVi della gentile attenzione, Vi porgo i nostri più cordiali saluti.
Per avere informazioni sulla nuova edizione del Premio Mediastars clicca qui! <http://www.mediastareditore.com/public/mediastars/att/46.84449418.pdf>

Giulio Rodolfo
Mediastars
Viale Lombardia 21. 20131 . Milano
tel +39 0270631880
Cell. 339.7035382

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