Dopo Sondrio,
Bormio e Como, tocca a Monza. Il tour promozionale del mio libro L’inferno chiamato Afghanistan continua
nel cuore della Brianza, l’antica Insubria. Giovedì 20 settembre 2012, alle ore
21:00, anche il pubblico di Monza e dintorni potrà conoscere un Afghanistan
sorprendente, diverso da come viene raccontato dai mass-media. Il mio
Afghanistan, come hanno avuto modo di scoprirlo le persone che hanno assistito
alle precedenti presentazioni, è impietoso, drammatico, privo di speranza.
Nello stesso tempo, però, è colmo di poesia e umanità. Nella città che fu
residenza estiva dei Longobardi nel VII secolo e che conserva la famosa Corona
Ferrea, con cui furono incoronati i re d’Italia nell’Alto Medioevo e alcuni
imperatori del Sacro Romano Impero, sarò ospite nella Sala Congressi del
giornale Il Cittadino di Monza e Brianza,
in via Longhi 3 e avrò al mio fianco come moderatore Giorgio Bardaglio,
direttore del Cittadino. Ho
conosciuto Giorgio quand’era un redattore del quotidiano La Provincia e ne ho subito apprezzato la sensibilità oltre che la
valenza professionale. E di sensibilità ne occorre non poca per digerire alcune
immagini durissime che mostro nel video introduttivo alla presentazione. In Afghanistan
ho infatti realizzato moltissime fotografie che raccontano la verità di quel
Paese in maniera così cruda da non concedere spazio ai dubbi e alle
recriminazioni. Giuseppe Ungaretti sosteneva che la parola è impotente, non
riesce a dare il segreto che è in noi o nelle cose, tutt’al più lo avvicina. In
effetti, dopo quaranta secoli di civiltà orale, oggi le parole possono sembrare
monete inflazionate, insufficienti come merce di scambio per acquisire la
realtà. Non so se nel mio libro sono riuscito a cogliere e trasmettere il
segreto dell’Afghanistan, la triste realtà di un Paese dilaniato dall’odio. Ma
credo di essermi avvicinato alla verità e di essa sono testimoni irrefutabili
proprio le immagini che introducono il mio racconto.
Naturalmente, anche il
racconto è sincero e suggestivo, “ti cattura e non ti lascia più”, come ha
detto un mio lettore entusiasta. Sì, il mio Afghanistan avvince
in virtù del fatto che suscita
emozioni viscerali. In occasione della mia ultima presentazione, a
Parolario,
ho citato questa frase: “Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché
sia
letto. In modo chiaro perché sia capito. In modo pittoresco perché sia
ricordato. E, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati
dalla
sua luce”. Queste parole furono scritte da un grande giornalista
americano,
Joseph Pulitzer, e forse ho rispettato i dettami da lui suggeriti. Ma io
non
sono un giornalista, sono un narratore, un affabulatore che ha colto la
magia
esotica e l’incanto violento e insieme lirico di un Paese che ho
giustamente
definito “inferno” ma che potrebbe essere un paradiso, se i suoi
abitanti
smettessero di dilaniarsi come lupi impazziti. Perché il vero problema
dell’Afghanistan non è l’occupazione straniera. Oggi gli americani e le
truppe dell’Alleanza Atlantica, ieri i sovietici e ancor prima i
britannici.
Il vero problema è la ritrosia degli afghani a vivere pacificamente,
senza
opprimersi e fronteggiarsi in continue lotte di potere intestino, faide
tribali, guerre civili alimentate da pretesti religiosi. A Monza
racconterò
questo e altro. Mi introdussi nel Paese dei talebani privo di
credenziali,
senza mansioni e scorta armata. Per tre mesi ho goduto di una libertà di
manovra che ancora oggi non so spiegarmi, salvo pensare che in certi
momenti
fossi l’uomo invisibile. Ciò mi ha permesso di andare ovunque e cogliere
il genius loci, raccontarlo senza
reticenze, schierandomi dalla parte degli umili e denunciando gli intrighi del
potere. Ho fuso nel crogiolo della scrittura le lamine di ferro e le pietre
preziose che ho raccolto sulla strada. Ho composto un mosaico narrativo che
prende forma grazie alle tessere vivaci di cui è composto e su cui sono fissati
come sullo smalto le condizioni disperate e i rari attimi sereni che
scandiscono la vita del popolo afghano. Ho mostrato la vita e la morte nelle
loro sfumature e di entrambe sono stato testimone oculare. Ho messo a nudo la
condizione femminile e quella non meno drammatica dei bambini, la quotidianità
nelle carceri e nei campi per sfollati, i retroscena delle operazioni di guerra
e di pace a un tempo del nostro contingente militare e degli aiuti umanitari,
il fenomeno dilagante della droga, il vuoto sanitario, la corruzione politica.
Ma ho anche colto gli aspetti poetici e spirituali di un popolo condannato all’inferno
pur amando la vita.
Chi ha letto il libro riconosce che la lettura solletica le
corde del cuore e le fa vibrare, ora con vigore ora dolcemente, suscitando
sentimenti di segno opposto: sdegno, rabbia e disgusto accanto alla commozione,
all’empatia e al sentire più intimo, permeabile al fascino dell’Oriente
misterioso e del sogno infranto. E ammette che non è possibile restare
indifferenti, per quanto della guerra in Afghanistan si parli sempre meno e in
modo superficiale. Eppure, chi avrà la bontà di partecipare all’incontro di
Monza si renderà conto che il dramma afghano è ancora attuale e ci riguarda da
vicino. Non servirà calzare l’elmetto, ma è bene sapere che le parole possono
esplodere, come le bombe e le mine.
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