Per diffondere una cultura del wrestling in Italia, non basta occuparsi solo di wrestling, ma anche di cultura.
È ciò che sembra voler dire Andrea Corona, filosofo della comunicazione, in risposta ai tanti autori dei passati libri sul wrestling, i quali si proponevano di parlare di wrestling a chi però ne sapeva già; col risultato finale di un cane che si morde la coda (la 'cultura' del wrestling non usciva mai, cioè, dalla ristretta cerchia dei soliti noti fans-nerds internettiani).
Con Giochi ringhistici, un saggio sulla ludologia contemporanea, il wrestling viene spiegato per la prima volta ai non appassionati/esperti del settore. Anzi, viene spiegato agli appassionati di materie umanistiche e addirittura e ai docenti universitari.
Dopo il primo capitolo, nel quale l'autore ci ricorda che già negli anni 50 il semiologo francese Roland Barthes dedicò al wrestling un frizzante saggio sull'argomento ("Il mondo del catch"), ci viene spiegato che la peculiarità del wrestling è quella di riproporre sempre gli stessi schemi narrativi i quali, fedeli a un canovaccio sempre uguale, poggiano su situazioni e personaggi semplici, ripetitivi e ben delineati, che risultano immediatamente comprensibili per tutti. Ma proprio dopo aver 'rassicurato' lo spettatore offrendogli così spesso gli stessi schemi, sarà possibile allora spiazzare il pubblico con qualche sporadico colpo di scena (il colpo di scena è sporadico per definizione, visto che in caso contrario non sarebbe più un colpo di scena).
Si ricorre dunque a quelli che Greimas chiamava "modelli attanziali", e che sono delle funzioni narrative utilizzate per la scrittura teatrale o per la stesura delle fiabe (e che valgono benissimo anche per il wrestling, appunto).
Sebbene ad una prima lettura i capitoli del libro possano apparire slegati fra loro, in realtà ci sono temi ricorrenti a fare da collante: in ogni capitolo ritorna qualche frase presa dal saggio di Barthes, ma soprattutto è possibile ritrovare un intreccio di tematiche sospese tra la semiotica del gesto (nella recitazione e nella vita ordinaria) e il linguaggio del corpo, o tra la comunicazione di un messaggio (o la 'meta-comunicazione' di un messaggio) e il concetto filosofico di gioco, concetto mai trattato in maniera semplicistica e sbrigativa.
Il gioco, infatti, viene studiato dai teorici dei linguaggi e dai semantici, ma anche dagli storici, dai sociologi e dagli antropologi.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi libri sul gioco e numerosi libri sul wrestling, ma mai, prima d'ora, un libro "sul gioco del wrestling". Occorre sapere che nel corso di quest'ultima decade, molti studiosi del gioco hanno riesaminato i testi di Eugen Fink o di Roger Caillois (che scrisse, proprio in riferimento alla lotta, che il fatto che la prova sportiva possa essere occasione di spettacolo non diminuisce, ma rafforza, la sua natura di gioco) alla luce di nuovi elementi di riflessione pedagogica, psicologica o filosofica.
Il ludus può significare insieme maschera, violenza, agonismo sportivo; ma anche intenzioni nascoste, paure, infortuni fisici, rischi economici. Sul palcoscenico l'attore può mettere molto o poco di sé nel personaggio che interpreta, ma questo lo spettatore non può saperlo: il suo compito è semplicemente quello di godersi lo spettacolo con magno gaudio.
Corona ci dice - riprendendo ancora le parole di Roland Barthes - che anche per lo spettatore di wrestling deve valere lo stesso; l'intento del suo libro è semplicemente quello di mettere in luce aspetti non banali del wrestling (come il fatto che i lottatori mettono talvolta in scena episodi della vita privata mascherandoli da finzione, spacciando dunque non solo il finto per vero ma anche il vero per finto), così da inserirlo all'interno di dibattiti 'colti'. Ma del resto i sociologi scrivono già da tempo di calcio o di quiz televisivi. All'appello mancava ormai solo il wrestling.
Vito
(grazie a Federico Romano, Simone DiMartino, Davide Volpe e Matteo Serino)
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