“Sarebbe un delirio di
onnipotenza pensare di porre termine ad ogni ibridazione del sé con l’altro
(noi non siamo Dio, sia modi finiti di Dio) ma il cammino etico che Spinoza ci
indica è quello del passaggio dall’essere in balia delle chimere alla
separazione dagli inviluppi che ci snaturano (dipendenze, relazioni mortifere …)
e inoltre dalla dipendenza inconsapevole dall’altro ad un’attiva sinergia con
esso.” ‒ Cristina Zaltieri
François
Zourabichvili è stato un filosofo francese, di origini armene, che si
dedicò interamente alla comprensione e commento di Baruch Spinoza e Gilles
Deleuze, approdando alla produzione di opere di folgorante intensità
concettuale.
Docente
all’Università Paul Valéry di Montpellier e direttore di programma del
Collège International de Philosophie dal 1998 al 2004, ancor’oggi è poco conosciuto in Italia malgrado le quattro traduzioni dal
francese in italiano (“Deleuze. Una filosofia dell'evento”, Ombre Corte
2002; “Il vocabolario di Deleuze”, “Spinoza. Una fisica del pensiero” ed “Infanzia
e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza”, Negretto Editore, 2002 -
2017). In arrivo a marzo per la casa
editrice Negretto Editore “Il divenire
della filosofia di François Zourabichvili” un testo collettivo sulla filosofia
di “Zoura”.
A 41 anni, ed
esattamente il 19 aprile 2006, Zourabichvili ha deciso di interrompere la
sua vita proprio come aveva fatto dieci anni prima Gilles Deleuze.
Curatrice e traduttrice dei tre volumi editi dalla Negretto
Editore, Cristina Zaltieri è docente di
filosofia ai licei e cultrice di filosofia all’Università di Bergamo.
Dirige assieme alla stimata collega Rossella Frabbrichesi la collana “Il corpo
della filosofia”. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati
pubblicati per gli editori Guerini e Mimesis.
Per esporre e
promuovere l’audace pensiero di François Zourabichvili è stato necessario
richiedere l’ausilio di Cristina
Zaltieri che con grande disponibilità ha accettato l’invito.
A.M.: Ciao
Cristina, è un vero piacere ospitarti per questa chiacchierata sul filosofo
francese François Zourabichvili. Ma prima di addentrarci nel tema specifico
dell’intervista mi piacerebbe scorrere velocemente gli altri autori e testi che
hai curato, penso per esempio “L’invenzione del corpo ‒
Dalle membra disperse all’organismo” nel quale ti dedichi a Platone, e non
solo.
Cristina Zaltieri: Comincerei
dal mio primo libro del 2001, nato da un’esperienza di lavoro decennale e da
una circostanza particolare. Da alcuni anni tenevo, come docente a contratto,
un corso propedeutico di Filosofia contemporanea presso l’Università degli
Studi di Milano, quando il professor Elio Franzini, docente di Filosofia
Estetica presso tale Università, mi propose di scrivere per la collana
“Orientarsi nel pensiero”‒ di cui egli era direttore presso la casa Editrice Guerini ‒ un testo
sulla filosofia del Novecento proprio in concomitanza con la fine di tale
secolo, che mettesse a frutto la mia esperienza
d’insegnamento. La fine di un secolo, pur nella sua natura convenzionale
e banale, poteva in effetti esser l’occasione per una sorta di bilancio
filosofico su un periodo assai complesso e affollato di correnti e idee. È così
che è nato Il secolo della conoscenza.
Metafisica, linguaggio, verità, soggetto, metodo: cinque parole-chiave della
filosofia del Novecento, il cui sottotitolo spiega quale fu la via da me
utilizzata per percorrere un territorio impervio e vastissimo quale quello del
pensiero del secolo XX. Scelsi cinque voci – a mio parere emblematiche – delle
domande che avevano attraversato il pensiero del secolo per considerare, a
proposito di ognuna di loro – metafisica, soggetto, linguaggio, verità e metodo
– lo stato dell’indagine filosofica a partire dai pensatori più significativi
di fine Ottocento-inizio Novecento per poi prendere in esame i percorsi che ‒ a mio parere
– mostravano le soluzioni più originali e più dense di effetti speculativi
emerse nel secondo Novecento. Tale indagine finiva indubbiamente per
sconfessare una vulgata “escatologica” che ha decretato la “fine della
metafisica”, la “morte della verità e del soggetto”, e la “impraticabilità del
metodo”, alludendo insomma ad una morte della filosofia non avvalorata dal
reale confronto con la pratica filosofica del secolo scorso. Una pratica che evidenzia
piuttosto l’emergere di nuove espressioni della filosofia non più sottoposte
all’egida dell’identità di essere e pensiero imperante da Parmenide a Hegel; ovvero l’emergere di diverse forme della
soggettività, nate dalla deflagrazione del soggetto moderno cartesiano, di
un’esperienza della verità differente da quella dell’adeguazione di pensiero e
cosa, di una considerazione del linguaggio altra rispetto a quella che lo vuole
mero strumento di comunicazione a nostra disposizione, di una visione del
metodo non più meccanica o deterministica, ma piuttosto come percorso (odos) esplorativo e inventivo. Il mio
secondo lavoro, Felicità e bene comune.
Etica e politica nel tardo Novecento, edito da Mimesis nel 2004, continua la
ricerca sul pensiero del secolo appena concluso, dedicandosi all’ambito
dell’etica e della politica nell’intento di mostrare le originalità che in tali
ambiti il Novecento aveva prodotto. Per quanto riguarda l’Etica di certo le
sfide più interessanti erano individuate in quel testo nella dimensione
“tecnototalitaria” invasiva dell’esistenza e nella relazione con un’alterità
capace di mettere in causa la presunta autonomia del soggetto; per quanto
riguarda la riflessione politica novecentesca gli aspetti più originali
concernevano la ricerca genealogica delle radici del “politico” e la prospettiva
di una poiesis politica capace di
restituire alla politica quella forza che non è solo della razionalità
strumentale operante in vista dei fini, e di inventare nuovi gesti e nuovi
scenari del con-vivere, spinta dal
desiderio di “possibile”.
Nel 2008 inizia la
collaborazione con l’Editore Silvano Negretto con la creazione della collana di
testi filosofici “Il corpo della filosofia” diretta da Rossella Fabbrichesi e
da me. L’incontro professionale (quello amicale risaliva ad anni prima) con
Silvano Negretto editore-filosofo, aperto con coraggio verso un’editoria di
pensiero critico, è stato molto stimolante. Uno dei frutti, oltre alle belle
monografie di Barbara Stiegler, Camilla Pagani, Andrea Parravicini che Fabbrichesi
ed io abbiamo potuto con il pieno appoggio di Negretto pubblicare nella
collana, è il mio terzo libro, L’invenzione
del corpo. Dalle membra disperse
all’organismo, del 2009. Già il titolo fornisce un’indicazione della
ricerca qui presentata. Si trattava di seguire un percorso genealogico, sulle
orme di Nietzsche e del mio maestro Carlo Sini, che scavasse oltre l’immagine
del corpo che si è affermata nella nostra cultura: quella del corpo-organismo
evidenziandone la natura di modello dominante su cui l’Occidente ha costruito sia
l’immagine del corpo della scienza medica sia l’immagine della comunità
politica. Il percorso genealogico sul corpo-organismo mi conduceva a Platone
come luogo di fondazione del corpo-organismo in quanto l’organismo, dove tutte
le membra sono coordinate dal centro propulsore dell’anima, si mostra a Platone
come l’unico recupero possibile e necessario per il suo progetto
paidetico-politico che deve governare le anime ma anche i corpi. Nel testo individuavo nel dialogo Fedro il luogo di nascita del corpo organismo
poi descritto nel Timeo e ipotizzavo
che Platone trovasse ispirazione per un modello organico del corpo non
frequentato ai tempi dalla medicina ippocratica proprio nella pratica della
scrittura. Nel Fedro Platone pone un
parallelo tra il discorso scritto e l’animale dicendo che entrambi devono
essere composti da parti in armonia tra loro e guidate da un motore centrale
(nel testo scritto è la definizione, nel corpo è l’anima) presentando dunque un
modello corporeo organico ispirato dal discorso scritto, dal testo. La mia ricerca andava poi a considerare alcune
riprese del modello organico e psicocentrato del corpo in Tito Livio e in Paolo
di Tarso che, applicando tale modello, uno allo Stato l’altro alla Chiesa, ne valorizzano
il carattere economico (l’organismo è un insieme che mira all’utile coordinando
e disciplinando le forze molteplici del corpo) e il carattere immunitario
(l’organismo definisce e contiene creando un confine netto tra ciò che è dentro
il perimetro del corpo-comunità e ciò che è fuori, spesso avvertito come una
minaccia). Inoltre si consideravano alcune, rare, eccezioni a tale modello
organico, presenti nella nostra tradizione di pensiero: quelle del corpo
senz’organi di Artaud e di Deleuze. Infine la mia ricerca genealogica finiva
per giungere alla visione omerica dell’uomo nell’Iliade, privo d’anima e di corpo organico, ma disseminato in varie
forze fisico-patiche, corpo polyedies,
polimorfo, immagine lontana da quell’addomesticamento delle forze del corpo che
si affermerà nel corpo-organismo dell’Occidente. Il prezzo di tale
addomesticamento consisterà nell’affermazione di un corpo il cui valore si
riduce soprattutto nell’efficienza produttiva, nella forza lavoro, nella
chiusura immunitaria al mondo e dunque in un impoverimento della relazione
uomo-mondo che ha nel corpo il luogo dell’incontro.
Non è certo un caso
che il mio lavoro successivo a tale ricerca sul corpo, Il divenire della Bildung in
Nietzsche e in Spinoza (Mimesis, 2013) sia interamente dedicato a due filosofi
che mettono in causa la separazione platonica di anima e corpo e leggono
quest’ultimo in modo assai lontano dal modello egemonico dell’organismo,
valorizzandone appieno la funzione di luogo di metabolizzazione del mondo.
Proprio da questa loro indagine di grande perspicuità e originalità sull’umano
deriva, e nel testo cerco di mostrarlo, un progetto di formazione dell’uomo, di
Bildung, di grande potenza e attualità,
non ascrivibile al modello economico e dipendente dal principio di prestazione
che purtroppo ha trionfato nella nostra cultura.
A.M.: Ed ora
iniziamo con Zourabichvili. Nella sua prima monografia “Spinoza. Una fisica del
pensiero” presenta Spinoza come “pensatore
che tematizza il divenire”. In che modo questo discorso di mutazione
continua in “Infanzia e regno”?
Cristina Zaltieri: François
Zourabichvili è stato uno degli autori che mi hanno guidato nella ricerca di
dottorato poi pubblicata con il titolo Il
divenire della Bildung in Nietzsche e
in Spinoza. Questo perché la lente attraverso la quale Zourabichvili legge
l’opera di Spinoza è in effetti quella costituita dalla questione del divenire.
Ciò rende particolarmente originali le sue due monografie dedicate al filosofo olandese.
Cerchiamo di capire perché. In primo luogo, il termine “divenire” si riferisce
al mutamento senza voler dare ad esso un senso, una direzione, lasciandolo
esposto all’imprevedibilità dell’Evento. Nella nostra cultura il divenire degli
enti ha sempre costituito un problema che la filosofia ha per lo più affrontato
da Anassimandro fino alla scienza moderna cercando di sottoporre il cambiamento
ad una legge, ad una regola in modo da imbrigliarne la forza eversiva e
inquietante. Una delle soluzioni più radicali nei confronti del divenire è
stata quella di Parmenide che lo nega perché incompatibile con la ragione. Ecco,
Spinoza è stato per lo più letto come anch’egli filosofo dell’immobilità della
sostanza, che relega il divenire, il mutamento nell’ambito dell’immaginazione
fallace. Zourabichvili mostra ‒ di contro a tale lettura (che ha in Hegel un autorevole
sostenitore) ‒
come in Spinoza agisca lungo l’intera sua opera il tema del divenire, a partire
da quello etico, che può emendare la mente dell’uomo portandolo ad una più
piena espressione della sua potenza, liberandolo dalle paure e dalle
superstizioni che ne intristiscono le possibilità. In Spinoza. Una fisica del pensiero Zourabichvili ci presenta il
pensiero spinoziano impegnato ad assumersi il confronto con quell’ospite
inquietante che è il divenire fino a interrogarsi sul limite ultimo del suo
procedere che è la trasformazione. Ne emerge il quadro di una filosofia anomala
nel panorama della nostra tradizione, che non si lascia incasellare in nessuna
delle partizioni classiche: idealismo, materialismo, empirismo, razionalismo…
ma che richiede al lettore uno sforzo speculativo capace di tracciare nuove
strade. È questo sforzo che lo Spinoza di Zourabichvili ci conduce a fare. A
cominciare dalla questione della “forma”, che in Spinoza – come Zourabichvili
dimostra – cambia statuto rispetto alla tradizione in quanto non è più
separabile dall’ente singolare, ossia dal modo, bensì coincide con il quantum di potenza che il modo esprime.
In tal senso la trasformazione intesa come passaggio di un ente da una forma ad
un'altra restando se stesso non è pensabile in un’ottica spinoziana. Il titolo
del testo che ha natura ossimorica parlando di una fisica del pensiero – da
sempre disgiunte nella nostra filosofia – allude alla necessità ‒ indicata
da Spinoza ‒ di
pensare la materia di cui l’intera natura è composta in modo meno angusto di
quanto il materialismo classico da sempre suggerisca. Infatti se la Sostanza, ossia l’intera Natura,
si esprime in infiniti attributi di cui due sono corporeità e pensiero, anche
quest’ultimo ‒
pur indipendente dalle leggi meccaniche che presiedono gli incontri tra i corpi
‒ sarà
governato da proprie leggi seguendo le quali i pensieri, le menti incontreranno
altre menti, si comporranno le une con le altre, si separeranno, ecc. Buona
parte del testo esplora questa terra di confine che è la fisica del pensiero
per Zourabichvili essenziale al fine etico di emendare le menti da chimere e
superstizioni. Tale lavoro etico-politico di emendazione prosegue, sempre sotto
la guida di Spinoza, anche in Infanzia e
regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza laddove si tratta di
ripensare il divenire singolare dall’infante all’adulto, di cui tutti abbiamo
esperienza ma di cui difficilmente si comprende la profonda natura, e il
divenire collettivo del volgo ‒ facilmente ammaliato da un’immagine divina della sovranità
che la snatura – verso un’autonomia e una emancipazione capace di renderlo
moltitudine libera.
A.M.: Zourabichvili
sostiene “Il triangolo paradossale dello
spinozismo: progredire è più in profondità imparare a conservarsi; e l’opera di
conservazione rinvia costantemente alla questione della trasformazione.” Possiamo intuire che questa sia la chiave per
capire il titolo “Infanzia e regno” connesso al sottotitolo “Il conservatorismo
paradossale di Spinoza”?
Cristina Zaltieri: Sì,
hai ben colto il legame profondo, a prima vista paradossale, tra conservazione
di sé e trasformazione che Zourabichvili vede al lavoro nell’intero percorso
spinoziano. Come si è già detto, Spinoza è per Zourabichvili un pensatore che
ci invita a pensare altrimenti e di più rispetto alla strada maestra tracciata
dalla tradizione e che tiene insieme elementi tradizionalmente poco
compatibili: natura e Dio, amore e intelletto e anche mutamento e
conservazione. La questione va posta così: ognuno di noi è un quantum di conatus, ossia di potenza divina, destinato a variare ad ogni
incontro con altri modi estesi, ossia corpi e di pensiero, ossia menti. Gli
incontri sono inevitabili e necessari per ogni vivente che dunque è
costantemente esposto alla variazione, al mutamento, ma – nello stesso tempo –
per continuare a vivere deve conservare la potenza che lo costituisce, dunque
deve, come insegna Spinoza, coltivare incontri e relazioni che incrementano la
sua potenza ed evitare, laddove è possibile, di evitare incontri che la
deprimono. In questo senso spinoziano Gilles Deleuze chiama la vita “arte degli
incontri” e Laurent Bove parla dell’etica in termini di una “strategia del conatus”. Dunque Spinoza ci insegna che
occorre conservarsi per mutare e mutare per conservarsi. Un esempio banale può
essere quello dell’incontro tra un bambino e un buon cibo: il primo conserva la
forza del suo corpo – modo dell’attributo dell’estensione – e della sua mente –
modo dell’attributo del pensiero ‒ metabolizzando il cibo e nello stesso tempo va incontro a
crescita, a mutamento con tale metabolizzazione.
A.M.: Che
differenza intercorre fra il termine “mutamento” e “trasformazione”?
Cristina Zaltieri: Vi
è un diverso grado di radicalità nei due concetti che indicano entrambi un
divenire, laddove essi siano intesi in un senso “filosofico”. Il mutamento è un
divenire che non comporta il passaggio da una forma ad un’altra, mentre la
trasformazione reca in sé tale evenienza. Nel linguaggio comune i due termini sono
intercambiabili, ma se vogliamo prestare attenzione al significato tecnico che
acquisiscono nel discorso filosofico occorre riconoscere, come ci insegna lo
stesso Zourabichvili, che Spinoza pur alludendo varie volte alla trasformazione
non la ritiene compatibile con il permanere dell’individuo, dato che forma e
individuo coincidono. Quindi laddove Spinoza ci pone di fronte al cambiamento
radicale di un neonato in adulto o del poeta spagnolo che dopo strana malattia,
non ricorda nulla tranne la lingua materna (entrambi casi molto studiati da
Zourabichvili) non si tratta comunque di trasformazioni, semmai di variazioni
del conatus che costituisce il
bambino e di quello che costituisce il poeta. Quanto alle trasformazioni
alchemiche Spinoza nella lettera XL a Jelles allude a sue ricerche a proposito
ma in modo piuttosto vago. Possiamo però avanzare nei confronti dell’alchimia, laddove
essa teorizzi trasformazioni da un elemento ad un altro senza alcuna
connessione con il primo, ad esempio dal piombo all’oro, le obiezioni che
Spinoza avanzava nei confronti della credenza nei miracoli ossia nella
possibilità di eventi in netta rottura con le leggi della natura. Spinoza legge
tali credenze solo come asylum
ignorantiae, non certo come prova della grandezza di Dio a cui semmai fa
fede il procedere stesso della natura secondo i suoi principi. Le cosiddette
“trasformazioni” di cui non comprendiamo la natura (come quella del poeta in
amnesico) testimoniano non certo che tutto può tramutarsi in tutto ma semmai i
limiti del nostro intelletto, limiti che Spinoza spesso riconosce. Aggiungerei
che la trasformazione è un tema specifico della lettura che Zourabichvili ci
offre di Spinoza, è un problema zourabichviliano più che spinoziano; in un
certo qual modo essa è, per Zourabichvili, l’ombra che accompagna ogni divenire
esposto all’Evento, è lo stato limite che allude ad una possibilità: lo
spezzarsi dell’individualità, ossia del conatus
che non coincide per forza con la morte fisica.
A.M.: Enveloppement. Malgrado l’esistenza
nella lingua francese della parola “implication”,
Zourabichvili utilizza “inviluppo”. Potresti spiegarci brevemente la profondità
di questo concetto?
Cristina Zaltieri: In lingua francese le parole enveloppement e implication hanno entrambe il significato di un ripiegamento che
contiene in sé qualcosa d’altro da sé, come una busta che contiene un foglio, ma
implication ha una più specifica
accezione logica, come “implicazione” in italiano. Ecco perché Zourabichvili
preferisce usare enveloppement che copre
un’area semantica più ampia e che serve all’autore per rendere appieno la
complessità di ogni ente. Attraverso l’idea deleuziana di “piega” e quella
spinoziana di “affetto”, Zourabichvili riflette sulla complessità di ogni
identità che appare sempre un inviluppo di alterità, una densità
pluridimensionale di pensiero, affettività, corporeità, forza. In
effetti ognuno di noi inviluppa in sé alterità in un intreccio composito
presente sia a livello del corpo ‒ sempre amalgamato con altri corpi: quelli ingeriti, quelli
impugnati nel lavoro o nelle pratiche quotidiane ‒ sia a livello del pensiero, laddove la
nostra mente assorbe pensieri altrui, inviluppa le menti che incontra e che la
affettano con la loro forza speculativa. L’immagine del mondo che ci
viene offerta da Zourabichvili attraverso il concetto di inviluppo è
quella di un piano d’immanenza non certo monodimensionale (solo materiale),
neppure bidimensionale (composto da materia e spirito) bensì com-plicato da
innumerevoli pieghe, addensamenti, intrecci, commistioni…
A.M.: Ci troviamo
di fronte a due forme, due chimere, l’infans
-adultus ed il Dio-re. Che cosa sono esattamente ed in che modo ci si
può liberare da esse?
Cristina Zaltieri: “Chimera”
è concetto utilizzato da Spinoza per indicare un inviluppo di più nature che
non implementa il conatus delle entità
implicate bensì le snatura; si tratta, dice Zourabichvili, di un inviluppo
canceroso, una mescolanza di alterità la cui specificità, rispetto agli inviluppi
‘virtuosi’, sta nel tenere insieme ciò che è incompatibile e dunque destinato ad
un esito distruttivo. In Infanzia
e regno Zourabichvili legge in Spinoza una critica del regime chimerico a
cui spesso l’uomo si espone alienandosi. Due chimere contro cui Spinoza lotta
sono, per l’appunto, quelle dell’infans-adultus
e del Dio-re. Nella prima chimera, l’infanzia
inviluppata nell’adultità sortisce l’effetto di leggere la prima come semplice
mancanza della seconda, come stato di impotenza e di miseria rispetto alla
compiutezza dell’adultità e non come età coi propri doni e i propri peculiari
caratteri; di contro l’infanzia inviluppata nell’età adulta proietta
sull’adulto l’ombra di una immaturità e di una sudditanza a tutto ciò che è
esterno. Nella seconda chimera del Dio-re, a Dio si attribuisce lo scettro del
comando, leggendolo come un sovrano che regge e controlla il mondo mentre la
sovranità è snaturata laddove al potere politico che le compete si attribuisce
una sacralità, una aurea divina che non appartiene alla sua natura. Infans-adultus e Dio-re sono due
espressioni dell’alienazione individuale e collettiva dell’uomo che la lettura
di Spinoza ci invita a combattere al fine di conseguire quello che
Zourabichvili definisce un «regime non chimerico dell’inviluppo». Ora, come
liberarsi dalle chimere? Spinoza,
secondo Zourabichvili e secondo la mia stessa lettura presentata in Il divenire della Bildung in Nietzsche e in Spinoza, pone come
centrale nel suo percorso etico un lavoro paidetico che assume in questa luce
l’aspetto di un lavoro capace di separare gli inviluppi mortiferi, chimerici,
da quelli ‘buoni’ e di insegnare ad assumere l’inviluppo, generato
inevitabilmente dai costanti e inevitabili incontri con l’alterità, come luogo
del dispiegamento della propria natura, della propria potenza. Sarebbe un
delirio di onnipotenza pensare di porre termine ad ogni ibridazione del sé con
l’altro (noi non siamo Dio, sia modi finiti di Dio) ma il cammino etico che
Spinoza ci indica è quello del passaggio dall’essere in balia delle chimere
alla separazione dagli inviluppi che ci snaturano (dipendenze, relazioni
mortifere…) e inoltre dalla dipendenza inconsapevole dall’altro ad un’attiva
sinergia con esso.
A.M.: Nel
Capitolo V del Trattato teologico-politico troviamo: “Quando uscirono dall’Egitto, gli Ebrei non erano più vincolati al
diritto di un’altra nazione; potevano liberamente sancire nuove leggi, ossia
istituire un nuovo diritto, fondare uno Stato in un luogo qualsiasi e occupare
le terre che preferissero.” Zourabichvili si sofferma sulla stessa
citazione per analizzare la moltitudine rivoluzionaria e la moltitudine libera,
in comparazione con l’ex poeta amnesico del celebre scolio spinoziano. La
storia umana può essere vista come un alternarsi di memoria ed oblio?
Cristina Zaltieri: La
citazione che hai qui ricordata intreccia insieme molti e
complessi motivi spinoziani. In primo luogo diciamo che in questo passo del Trattato teologico-politico Spinoza
considera il passaggio degli Ebrei da schiavi degli Egizi a cittadini di uno
Stato che si trattava di costituire ex novo,
cosa che verrà attuata sotto la guida di Mosè, dipinto da Spinoza come saggio
educatore. In un certo qual modo, anche gli Ebrei, come il poeta spagnolo, si
trovano all’uscita dall’Egitto amnesici, privi di una memoria politica, ormai
cancellata da generazioni costrette alla schiavitù. Ma, nel loro caso a
differenza del poeta amnesico, l’assenza di memoria gioca a loro favore aprendo
la possibilità dell’invenzione di un nuovo Stato, di una nuova collettività. La
memoria, per Spinoza, è una costruzione di connessioni per lo più meccaniche,
sotto l’egida dell’immaginazione. Sotto la sua egida trascorre in gran parte l’esistenza
di ognuno di noi scandita da azioni, da pratiche che ripetiamo per abitudine,
perché memorizzate. In questo senso gli Ebrei appena usciti dall’Egitto possono
essere definiti una pluralità “infante” la cui memoria collettiva non è stata
ancora tracciata, solcata, da una prassi politica definita. È una “moltitudine
libera” osserva Zourabichvili utilizzando un concetto che troviamo nel Trattato politico, perché posta in una sorta
di guado laddove la vita civile è ancora da inventare, da costruire. Ben più
difficile è pensare che un popolo si affranchi pienamente rovesciando una
tirannia perché per Spinoza, un tale popolo sarebbe portato a ripetere gli habitus appresi nel precedente governo e
a ricadere sotto un’altra tirannia, come la storia ci insegna. Spinoza ci mette
in guardia dai rischi che il peso della memoria individuale e collettiva
comporta, laddove ‒ non sottoposta a una critica
della ragione – finisce per dominare incontrastata le nostre vite ostacolando
il mutamento di abiti, di comportamenti che ci rendono servi. Il cammino etico di
mutamento delle passioni in azioni ma anche quello politico di liberazione da
ogni servaggio richiedono dunque un lavoro sapiente che dosi memoria e oblio in
modo tale da farci evitare la ripetizione fatale dell’institutum vitae che ci inviluppa in chimere mortifere o che ci fa
servi di poteri iniqui.
A.M.: Perché
Spinoza utilizza “corpus infantiae” (corpo dell’infanzia) invece di “corpus
infantis” (corpo dell’infante)?
Cristina Zaltieri: Vi
è solo un luogo
nell’opera di Spinoza in cui lui usa l’espressione “corpus infantiae”, ed è
nello scolio della proposizione 39 del libro V dell’Etica. In effetti è curioso il ricorso all’astrazione da parte di
un filosofo che non ha fiducia nella capacità conoscitiva degli universali.
Inoltre non si tratta di un lessema in uso presso gli autori latini letti e
spesso citati da Spinoza (Lucrezio, Seneca, Ovidio…), dunque quest’espressione
potrebbe proprio essere un’invenzione spinoziana. La troviamo verso la fine
dell’Etica laddove Spinoza dice: “In questa vita, dunque, siamo spinti
soprattutto a far sì che il corpo dell’infanzia (corpus infantiae) si
trasformi, per quanto la sua natura consenta e vi sia disposta, in un altro che
sia atto a moltissime cose e si riferisca ad una mente che sia il più
consapevole di sé e di Dio e delle cose”. (Etica, V, 39, scolio) È una frase molto bella che si presta a
compendiare l’intero percorso etico proposto da Spinoza e di certo l’uso del
termine “corpo” unito al genitivo astratto “dell’infanzia” finisce per
sprigionare una sorta di forza aforistica, quella che Zourabichvili ritiene sia
propria dei concetti potenti. La frase ci suggerisce di pensare la formazione
dell’uomo nei termini di uno sforzo collettivo (“siamo spinti”) teso a una
mutazione in direzione del superamento di quell’impotenza infantile di cui il
“corpo dell’infanzia” è per tutti noi l’emblema, suggerendoci di pensare tale
corpo non solo legato alla prima età di cui non abbiamo memoria, e del cui
cammino verso l’autonomia tutti dobbiamo farci carico, ma anche ad un stato,
possibile purtroppo a tutte le età, in cui si può sempre palesare la chimera
dell’infans adultus, di colui che è
ancora immerso nell’impotenza dell’infanzia, nello stato di minorità proprio di
tale età, pur essendo adulto.
A.M.: In che modo
Zourabichvili è innovativo nella sua analisi sul pensiero di Spinoza rispetto
al filosofo Gilles Deleuze ed allo psicoanalista e psichiatra Félix Guattari?
Cristina Zaltieri: Zourabichvili,
nella sua breve vita, si è dedicato allo studio di Spinoza e di Deleuze,
dedicando due monografie a ciascun autore. Il suo lavoro filosofico potrebbe
quindi essere rubricato come quello di un commentatore; in realtà egli affronta
Spinoza e Deleuze con una forza teoretica capace di esprimere un’originalità di
pensiero che ci impedisce di pensarlo come un semplice epigono di Deleuze. La
sua lettura di Spinoza è certo debitrice di quella di Deleuze per quanto concerne
l’impostazione: egli legge in Spinoza, come ho già detto, non il filosofo
dell’immobilità della sostanza, ma il filosofo che ha affrontato la questione
del divenire e delle sue aporie e, soprattutto, uno dei rari filosofi della
nostra tradizione che pensa radicalmente l’immanenza, senza rigurgiti di platonismo.
Direi che Zourabichvili si spinge ‒ attraverso Spinoza ‒ nel
territorio dell’immanenza con una radicalità speculativa senza pari. Prima di
tutto trae da Spinoza l’ispirazione per una “fisica del pensiero” capace di
pensare una materia davvero plurale, davvero comprensiva di tutti gli aspetti
del reale. Inoltre tematizza l’inviluppo come addensamento che costella
l’immanenza, che ne sviluppa le pieghe, i nodi di virtualità, le profondità:
l’immanenza non è così da pensare come una piatta superficie, non è riducibile
al “neutro” di Blanchot o l’“il y a” di Levinas, ossia a un tutto indifferenziato
che annichilisce ogni specificità. Infine, egli tematizza la questione della
trasformazione come punto estremo del divenire, come possibile rottura di una
forma forzando la filosofia a pensare in territori-limite quali quelli
dell’inviluppo mortifero o del venire meno dell’individualità non
necessariamente nella morte fisica. Anche la lettura dell’infanzia e della sua
rilevanza filosofica in Spinoza è in Zourabichvili differente da quella che a
tale riguardo Deleuze e Guattari presentano in Millepiani. In Millepiani Deleuze e Guattari scrivevano: “lo spinozismo è il divenir-bambino del filosofo”
volendo significare che in Spinoza la domanda definitoria che caratterizza la
filosofia da Socrate in poi passa da “cos’è
un ente?” a “cosa fa un ente?”, seguendo
in questo modo l’interrogare tipico del bambino che definisce “pragmaticamente”
le cose (per il bambino il cane non è un mammifero ungulato (secondo la
definizione scientifica), ma il cane è
quell’ente che abbaia, scodinzola, lecca il padrone, ecc…). Per Zourabichvili “il
divenir-bambino del filosofo” insegnato da Spinoza è da intendere soprattutto
come un’esplorazione della propria potenza, dei suoi effetti in ogni procedere
del corpo e della mente che deve rendere lo sguardo del filosofo una sorta di
sguardo infantile sulle cose, nel senso che tale sguardo cerca di precedere
ogni commiserazione, derisione, valutazione che sia per incentrarsi su “cosa
posso fare” come accade al bambino che si concentra su cosa può fare un piede,
una mano, ecc.
A.M.: Come ti
trovi con la casa editrice Negretto Editore? La consiglieresti?
Cristina Zaltieri: Beh,
questa è una domanda facile, l’unica facile che mi hai posto. La collaborazione
con Silvano Negretto è stata ed è tuttora per me, ma penso di poter parlare
anche a nome di Rossella Fabbrichesi che dirige insieme a me la collana “Il corpo
della filosofia”, quanto mai felice e fruttuosa. Quando ancora nel 2008,
all’inizio della sua attività di Editore proposi a Silvano Negretto la pubblicazione
delle traduzioni di ben tre monografie di un autore completamente sconosciuto
come era allora in Italia François Zourabichvili, Silvano accettò e certo non
per motivazioni economiche ma perché, da appassionato di filosofia come egli è,
riconobbe in quel giovane filosofo una forza speculativa da valorizzare e far conoscere.
Così traducemmo e pubblicammo dal 2012 al 2016 Spinoza. Una fisica del pensiero, l vocabolario di Deleuze, e Infanzia
e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza (Deleuze. Una filosofia dell’evento era già stato tradotto e
pubblicato nel 2002 dalla casa editrice Ombre Corte di Verona). Aggiungo che è in
uscita a marzo, sempre grazie a Negretto, un testo, il primo in Italia,
interamente dedicato a Zourabichvili: Il
divenire della filosofia di François Zourabichvili, atti di un Convegno
organizzato dal Seminario Spinoza dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione
con il Collège International de Philosophie di Parigi e con il Corso di perfezionamento
in teoria critica della società dell’Università Bicocca. Nello stesso modo
Rossella Fabbrichesi trovò in Silvano Negretto un sostenitore per la traduzione
e la pubblicazione di Nietzsche e la
biologia di Barbara Stiegler, da lei individuata come originale lettura del
forte e poco indagato legame tra la filosofia niezscheana e le scienze della
vita a lui contemporanee, e di Genealogia
del primitivo e La mente di Darwin
dei giovanissimi studiosi Camilla Pagani e Andrea Parravicini. Insomma, tutto
questo è stato uno sforzo non indifferente per una piccola casa editrice,
sforzo che ne attesta però la vitalità e l’attenzione per la qualità e
l’attualità del pensiero. E questo solo per parlare del lavoro svolto da
Negretto nell’ambito della filosofia, ma la vitalità della Casa Editrice si è
espressa anche in altri ambiti, poetico, antropologico, psichiatrico… Per concludere, certo che consiglio la
frequentazione dei libri della Negretto Editore, dato che ho potuto constatare
attraverso una collaborazione ormai decennale, l’assoluta dedizione alla causa
della diffusione del sapere senza alcun ammiccamento al mercato ma con l’attenzione
alla qualità delle opere, un lusso che Negretto si permette non perché ricco ma
perché filosofo nel senso che Socrate dà alla parola nella preghiera finale del
“Fedro”: “fai che io stimi ricco il
sapiente e che possa avere un quantità di oro quale nessun altro potrebbe fare
incetta o portarsi via se non il temperante”.
A.M.: Salutaci
con una citazione…
Cristina Zaltieri: Concluderei
con una frase che mi è molto cara e che credo sarebbe piaciuta a François
Zurabichvili. Non è di un filosofo, è di un chimico per formazione, che ha
avuto la sventura di incontrare nel mondo l’insensato e il terribile ma che in
questa frase, a mio parere molto spinoziana, ci consegna un’immagine vitale e
propositiva: la vita come “caosmos” dove proprio le pieghe, gli inviluppi, le
infrazioni alle regole, sono preziose riserve del virtuale e del possibile
futuro.
“La vita è
regola, è ordine che prevale sul Caos, ma la regola ha pieghe, sacche
inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine. Guai a cancellarle,
forse contengono il germe di tutti i nostri domani, perché la macchina
dell’universo è sottile, sottili sono le leggi che la reggono, ogni anno più
sottili si rivelano le regole a cui obbediscono le particelle subatomiche.” ‒ P. Levi, Il rito e il riso in L’altrui
mestiere, Einaudi, Torino, 1985, p.184-5.
A.M.: Cristina, ti ringrazio non solo per il
tempo che mi hai dedicato ma per le numerose riflessioni che mi hai donato sul
pensiero di François Zourabichvili. Ti saluto con le parole di Plotino: “Se
ci è data la possibilità di assimilarci a Dio, anche se non esattamente sulla
base delle stesse virtù, ma avendo una diversa disposizione in relazione a
virtù diverse, nulla vieta che noi, con le nostre virtù, possiamo renderci
simili a chi non possiede virtù, se solo in questa assimilazione non facciamo
riferimento a delle virtù. E come? Così. Se qualcosa esposto al calore si
riscalda, è forse necessario che anche la fonte del calore venga a sua volta
riscaldata? […] Nel fuoco c’è sì il calore, ma un calore connaturato, cosicché
se si vuole fare un ragionamento secondo l’analogia col fuoco, si dovrà
ritenere che nel caso dell’Anima la virtù è una qualità acquisita, nel caso di
Dio è invece connaturata […]”
Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto
Editore
Info
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Acquista “Spinoza. Una
fisica del pensiero”
https://www.ibs.it/spinoza-fisica-del-pensiero-libro-francois-zourabichvili/e/9788895967240
Acquista “Infanzia e
regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza”
https://www.unilibro.it/libro/zourabichvili-fran-ois/infanzia-regno-conservatorismo-paradossale-spinoza/9788895967295
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Sito Odori Suoni Colori
http://www.odorisuonicolori.it/
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/02/22/intervista-di-alessia-mocci-a-cristina-zaltieri-traduttrice-del-filosofo-francois-zourabichvili-per-negretto-editore/
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