A distanza di tre anni dalla pubblicazione vale ancora la pena di considerare il libro ‘Preparativi per la partenza’ di Paolo Ruffilli, edito da Marsilio nel 2003 (€12,50). Si presenta come un intarsio di interviste, frutto di incontri alchemici tra l’autore e una serie di personaggi realmente interessanti e stravaganti. La voce narrante si scinde e si segmenta in una “piramide di vicende insolite” (p.9).Consapevole di questa frantumazione, l’io è spinto alla ricerca del meraviglioso dalla pulsione della conoscenza e la realizza attraverso la fabula immaginativa. Se c’è un limite, è quello della perdita del privato, come dichiara nel prologo l’autore stesso. La sua prosa è a tratti giornalistica, secca, a tratti invece misterica, ondulata. Si susseguono dunque nel testo vari e mirabili racconti-intervista che narrano le vicende esistenziali di uomini e donne fuori dal comune. Pare di vederla, la valigia di Ruffilli, colma di carte e appunti, mentre scende da un aereo, o sale su un tram e arriva poi alla porta della sua preda, e bussa: disposto con sensibilità e acutezza all’incontro con l’altro, lo sconosciuto, per coglierne e scriverne l’imprescindibile originalità, la misteriosa storia, l’insolita nevrosi, l’ambigua identità. Perché Ruffilli aspetta di sapere dall’altro le ragioni del suo interesse (p.63) e, lo dichiara egli stesso, la sua voce si esprime attraverso quella dei personaggi, reali o immaginati, che va delineando nei diversi capitoli del libro. Quello che resta al lettore non è tanto la trama delle vicende individuali registrate, ma il senso e la profondità di una serie di incontri dai quali emergono molte e avvincenti riflessioni: la superstizione regna ancora inattesa e sovrana nelle sorti degli uomini, la volgarità è un concetto che deve essere aggiornato (p.21), la ricerca della bellezza, anche quella artistica, rende vacui, avvolge nell’effimero, e, come in un castello incantato, l’infausto ospite scorda, quale maleficio, la verità delle cose; ma alla storia è affidato il riscatto dei soprusi subiti, dei sacrilegi compiuti. Vi sono, in queste pagine, perle di saggezza e di irrazionalità salvifica: le viscere dell’uomo espellono feci e urina, tuttavia nelle viscere sta l’energia, e forse dalle viscere, lo diceva anche Freud, l’uomo dovrebbe imparare a gestire il flusso vitale; la madre terra pretende e sacrifica, come tutte le madri (la maternità è anche voracità). L’uomo del duemila immola ancora alla famelica dea Terra le vittime metropolitane sull’altare di cemento; nell’unione sessuale, anch’essa un rito, chi è preda è predato, chi crocifigge è crocifisso, a rinnovare la vita, la Pasqua della vita. Nel freddo, nelle difficoltà, nelle irsure economiche è nata nei secoli l’arte, dall’anima del genio adamitico. Allora lo scrivere è fuga dal “carcere del (proprio) io” (p.55). È “uscire da se stesso con il tramite delle parole” (ibidem). Esiste, nella psicologia di ogni scrittore, un’abitudine patologica alla comunicazione, una sorta di nevrosi e, come accade al protagonista del racconto-intervista ambientato a Capri, quando viene a mancare la possibilità di esercitare anche sulla pagina questo meraviglioso sintomo dell’affabulazione, è la morte dello spirito. Altrove, l’ermafrodita è la prova lampante che il principio di non contraddizione aristotelico, che ha invaso l’occidente con il suo logos, non è un valore assoluto. Egli, (non si può dire esso, e d’altronde, come annota giustamente l’autore, nella lingua italiana manca il genere neutro), è la contraddizione che basta a se stessa, e non procede per sintesi superiori hegeliane, ma resta lì, nella fecondità della tensione, nell’intensità dell’“accordo musicale” (p.68). Mentre il femminile resta all’autore distante, attraente, enigmatico, inavvicinabile. Schermo di diffidenza e desiderio. Non visto e dunque non amato. La pornografia e l’eros sono ben distinti nella cortigianeria delle donne che si vendono con leggera, amabile e felice impudicizia; così, senza peli sulla lingua, la spogliarellista, prostituta per piacere e non per dovere, difende la funzione sociale del vizio e della virtù che è insita nell’ esercitare il proibito con passione e ludus. Perché “sul palcoscenico del letto…Fingendo la violenza, ce ne liberiamo” (p.85). Tuttavia, “la questione capitale del mondo, non è il sesso, ma l’amore” (p.102). Non è un caso che il giudice in pensione ritenga il “giudicare …un atto di superbia estrema” (p.113), perché, alla resa dei conti, è sempre valida la gelida sentenza del Qoelet: sotto il sole, niente di nuovo. È perché, forse, all’amore e con l’amore tutto è perdonato, compreso.V’è poi un’analisi arguta dello scorrere del tempo, ove la velocità non è la fretta del senso comune contemporaneo ma è l’irrequietezza che sempre spinge avanti: “Un’antidoto, insomma, contro l’inerzia” (p.125). Ruffilli affronta poi il tema dell’anima, ricordando le ricerche sovietiche in questo campo: filtro tra il naturale e ciò che si intuisce essere al di là del naturale; anima senso del corpo, anima-aurea che, nel coito, si compenetra con l’aurea altra e poi rimane sospesa, incerta e in difficoltà nel ricomporre la propria identità. Infine ci si prepara alla partenza, consapevoli, con amarezza; lasciandoci alle spalle amori e passioni, per trovare rifugio nelle case “a breve termine” (p.142) che non hanno spazio per il superfluo. Chi resta custodisce ossessivamente la violenza sacrificale nel rito e nel mito. Chi parte non ha nulla da conservare, da mantenere. Il viaggiatore accoglie il nulla come colmo di senso, il sedentario “si aggrappa al pieno”(p.144), ignora “l’utilità del vuoto” (ibidem). La vita stessa allora è un preparativo per la partenza, la meta è il confine stesso della contingenza. Ma Ruffilli sembra persuaso che “la strada continui” (p.146). L’orizzonte resta aperto, e con esso il mistero.
di Adele Desideri
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