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giovedì 9 dicembre 2021

La letteralità e altri saggi sull’arte di François Zourabichvili: la presentazione di Cristina Zaltieri



“[…] in molti di questi testi l’arte assume una centralità che si evidenzia in differenti modalità, sia divenendo oggetto di lettura filosofica in quanto considerata più capace della filosofia di essere all’altezza dell’evento reagendo ad esso in modo affettivo, immediato e non cognitivo; ma anche in quanto essa è una pratica di esperienza e di sperimentazione (le due stanno sempre intrecciate) a cui la filosofia deve ispirarsi per non decadere ad esangue astrazione.” – Cristina Zaltieri

“La letteralità e altri saggi sull’arte” è uscito in Francia nel 2011 curato dalla filosofa francese specializzata nelle opere di Gilles Deleuze, Anne Sauvagnargues e pubblicato cinque anni dopo la morte del filosofo francese di origini armene François Zourabichvili (28 agosto 1965 – 19 aprile 2006) che, a soli 41 anni, ha deciso di interrompere la sua vita proprio come aveva fatto dieci anni prima Gilles Deleuze.

È in uscita, nel 2022, per la casa editrice mantovana Negretto Editore, la traduzione di questa raccolta di saggi che raccoglie conferenze ed articoli selezionati da due amici di Zourabichvili, Philippe Simay e Kader Mokkaden. La quasi totalità dei saggi presenti nella pubblicazione sono inediti nei quali il tema centrale è l’arte.

François Zourabichvili ancor’oggi è poco conosciuto in Italia malgrado le traduzioni delle monografie su Gilles Deleuze e Baruch Spinoza: “Deleuze. Una filosofia dell'evento”, Ombre Corte 2002; “Il vocabolario di Deleuze”, “Spinoza. Una fisica del pensiero”; “Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza”, Negretto Editore, 2002 – 2017. A marzo del 2018 Negretto Editore ha pubblicato un testo collettivo che raccoglie gli interventi presentati il 2 febbraio 2017 all’Università Bicocca di Milano al Convegno omonimo dedicato al filosofo dal titolo: “Il divenire della filosofia di François Zourabichvili”.

“La letteralità ed altri saggi sull’arte” è curato e tradotto da Cristina Zaltieri, docente di filosofia ai licei e cultrice di filosofia all’Università di Bergamo. Dirige assieme alla stimata collega Rossella Frabbrichesi la collana “Il corpo della filosofia” per Negretto Editore. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati pubblicati per gli editori Guerini e Mimesis.

Si ringrazia la casa editrice per aver concesso la pubblicazione in anteprima di un estratto tratto dalla precisa ed interessante presentazione di Cristina Zaltieri.

Estratto dalla presentazione di Cristina Zaltieri

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Nel caso dei saggi qui raccolti l’interesse che rivestono, entro la produzione di Zourabichvili, è indubbiamente significativo. Sono tutti posteriori alle quattro monografie pubblicate tra il 1994 e il 2003, mostrano quindi la direzione che il pensiero di Zourabichvili andava prendendo nei suoi ultimi anni di ricerca, una direzione che si potrebbe definire, utilizzando un’espressione ricorrente nei saggi qui raccolti, una “svolta estetica”. In primo luogo, infatti, in molti di questi testi l’arte assume una centralità che si evidenzia in differenti modalità, sia divenendo oggetto di lettura filosofica in quanto considerata più capace della filosofia di essere all’altezza dell’evento reagendo ad esso in modo affettivo, immediato e non cognitivo; ma anche in quanto essa è una pratica di esperienza e di sperimentazione (le due stanno sempre intrecciate) a cui la filosofia deve ispirarsi per non decadere ad esangue astrazione. In secondo luogo, si può parlare di svolta estetica ponendo l’accento sulla accezione originaria del termine «estetica» e sottolineare che la materia peculiare dell’operare artistico è il sensibile confuso-oscuro che resiste al concetto ed insieme lo nutre ponendolo in contatto con il fluire caotico della vita. La filosofia che opera nella distinzione del concetto non ha presa immediata sul sensibile, ha bisogno della mediazione dell’arte per entrare in contatto con tale elemento caotico e denso di virtualità.  Dunque, questi primi scritti postumi, estrapolati dall’archivio Zourabichvili, fanno legittimamente pensare che l’autore avesse in cantiere il progetto di un’opera dalla fisionomia nuova rispetto alle sue precedenti, non più originata specificatamente dall’incontro con un filosofo (anche se Deleuze resta un interlocutore costante), bensì ispirata in buona parte a tre temi non separabili l’uno dall’altro, dato che si richiamano tra loro in una trama di rimandi necessari: l’evento, la letteralità, il gioco estetico. Per dirlo in sintesi, rinviando poi ad una più distesa esplicazione: l’evento rimanda alla letteralità in quanto questa è evento del pensiero, evento del senso nella scrittura; la letteralità rimanda al gioco estetico laddove Zourabichvili individua nel riconoscimento non mimetico, bensì ludico, il carattere imprescindibile dell’arte che ispira di sé anche la filosofia e che si pone al servizio di una lettura non metaforica delle «metafore». Ma, come si è detto, l’evento ha negli artisti dei testimoni capaci di registrare le variazioni affettive che l’evento produce in loro con una immediatezza che è preclusa ai filosofi.

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Nel primo saggio con cui il testo si apre, Evento e letteralità, conferenza tenuta dall’autore in occasione dell’inaugurazione dei Fonds Deleuze,  la letteralità e l’evento sono legati insieme in quanto indicati da Zourabichvili come due direzioni possibili per un lavoro su e attraverso Deleuze che sfugga all’esegesi e alla commemorazione per cercare piuttosto di far deflagrare quella potenza di perturbazione del pensiero ordinario e di corrosione dei clichés propria del pensiero deleuziano, ma rimasta, a parere dell’autore, ancora alquanto inespressa nel pensiero successivo.

La questione della letteralità, sorprendentemente poco considerata dagli interpreti di Deleuze, viene assunta da Zourabichvili come via maestra per praticare un pensiero dell’immanenza a partire dal discorso stesso.

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Occorre intendere, spiega Zourabichvili, questo reiterato appello di Deleuze alla lettura letterale dei suoi testi: «letterale» non vuol affatto dire «proprio», richiede invece di pensare oltre l’opposizione binaria proprio/figurato. Prendiamo ad esempio l’uso di grande rilievo che Zourabichvili fa del termine «chimera» nella sua ricerca su Spinoza. Chimera è un termine che Spinoza stesso assume dalla mitologia dove esso designa un mostro frutto dell’unione di corpi incompatibili tra di loro, leone, capra, serpente o altri. Spinoza, osserva Zourabichvili, ci conduce a pensare che la figura del Dio-Re è una chimera. Affermare che il Dio-Re è una chimera esige che si pensi letteralmente il Dio-Re come l’impossibile fusione di due entità inconciliabili quali la potenza dell’essere e il potere monarchico. Non si tratta di una traslazione da un uso proprio del termine chimera, nel mito, ad un uso figurato, in filosofia, né si tratta di un vedere come, ispirato alla somiglianza tra i due termini, come pensa Ricoeur: il Dio-Re è realmente una chimera, una entità mostruosa, perché la potenza infinita espressa negli infiniti modi è incompatibile, ci insegna Spinoza, con il potere assoluto di un solo modo – il monarca - sugli altri così come, di contro,  la lettura di Dio come colui che ha governo assoluto sul mondo fa a pugni con il Deus sive natura.

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Nel capitolo 3, I concetti filosofici sono metafore? Deleuze e il suo problema della letteralità si ritorna sulla letteralità come pratica che esige l’atto di «credere» a ciò che la relazione inedita dà a vedere. Se si prende ad esempio l’enunciato deleuziano-guattariano «il cervello è più erba che albero», la sua lettura letterale poggia sulla relazione inedita tra cervello ed erba tale da determinare un’esperienza diversa del cervello, non più visto come un organo centrale di un sistema ramificato (ad albero), bensì considerato come un «sistema acentrato, una molteplicità le cui connessioni sono in parte probabilistiche e non predeterminate» (LA, 27). L’affermazione di tale relazione inaugura così una nuova sensibilità sia neurologica che filosofica, in quanto va a strutturare nel profondo la nostra esperienza; essa consiste in un esercizio di «credenza», non intenzionale, non cosciente, per l’appunto una sintesi passiva di un atto involontario.

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Nel capitolo 6 Sul detto di Nietzsche, Zourabichvili ci offre un esercizio esemplare di ciò che egli intende con sperimentazione affettiva del testo, applicato ad uno dei più profondi e misteriosi aforismi di Nietzsche: «Bisogna congedarsi dalla vita come Odisseo da Nausicaa – piuttosto benedicendola che restando innamorati di essa». Zourabichvili si ripromette di stare alla frase, di attraversarla ripetutamente senza volerla né spiegare né interpretare, senza voler ricondurne le parole ad un significato nascosto […]

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Restare all’immanenza del testo, di quello dell’aforisma in questione ma insieme anche di tutto il testo nietzscheano, obbliga qui il lettore a non confondere il distacco espresso dalla frase con figure come quella dell’«ideale ascetico», perché non consone a Nietzsche che le ha sempre combattute; inoltre richiede di confrontarsi criticamente con una vulgata che vorrebbe l’amore per la vita come l’unico imperativo nietzscheano. È come se nel suo asserto enigmatico Nietzsche ci indicasse un nuovo pathos per la vita, oltre all’amore, che certo richiama al pathos della distanza attraverso l’esercizio di una regola («bisogna che…») Tale regola potrebbe di primo acchito riecheggiare l’esercizio stoico, ma in realtà se ne distanzia: infatti, per Nietzsche non bisogna smettere di amare la vita al fine di non soffrire troppo all’idea di separarsene, in modo così da prepararsi alla morte;  bisogna invece non continuare ad essere innamorati della vita per bene-dirla, ossia per renderle pienamente giustizia, per omaggiarne l’incanto e la bellezza che le sono propri, proprio come il saggio Odisseo ha riconosciuto l’incanto e la bellezza che promanavano dalla giovinetta Nausicaa, senza con ciò volerla possedere, ma sapendo lasciarla. D’altronde la vita, come Nausicaa, è l’inconsumabile che resiste ad ogni interpretazione, che resiste al concetto, ossia al possesso.

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Nel capitolo 8, Chateaubriand: la rivoluzione e il suo testimone, è il testo Memorie d’Oltretomba a rivelare la postura del suo autore nella sua funzione di lucido testimone dell’evento della rivoluzione del 1789 con cui si inabissava per sempre il mondo a cui Chateaubriand apparteneva profondamente, non per questo ai suoi occhi esente da difetti, lasciando intravedere il baluginare di un altro mondo alieno a sé, ma non per questo del tutto indesiderabile. Chateaubriand si sente costantemente interpellato dalla domanda sul divenire in cui egli è preso vivendo quel frammezzo fra il mondo che scompare e quello che avanza; si sente come colui che sta tra due rive – espressione ricorrente nel suo testo - gettato tra due secoli come tuffato alla confluenza di due fiumi dalle acque agitate senza sapere quale terra potrà accoglierlo. Ma l’analisi di Zourabichvili mira a mostrare il legame profondo che sussiste tra la scrittura stessa di Chateaubriand, la sua creazione artistica, dunque, e il suo destino di testimone della Rivoluzione. Si tratta di una scrittura che, pur nel divampare delle più laceranti passioni partigiane, esprime un’attitudine che Zourabichvili definisce di «ritiro sollecito», in primo luogo dagli schieramenti netti, riconoscendo di incarnare egli stesso il frammezzo perché scisso, contradditorio, definendosi «repubblicano per natura, monarchico per ragione». Chateaubriand mira a dare consistenza semiotica nella sua stessa scrittura alla sua esperienza di testimone dell’evento, ossia di colui che sta tra due rive, tra due mondi e lo fa attraverso un’arte scritturale della collisione melodiosa tra incomparabili dove in una stessa frase due mondi estranei vengono tenuti insieme senza per questo ridurre lo scarto tra i due. L’arte dimostra, anche in questo caso, la sua capacità di dar corpo alla potenza di mutamento affettivo dell’evento.

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Ricorrente in numerosi dei testi qui raccolti è l’osservazione che la svolta estetica è un evento tutt’altro che recente, occorso alla filosofia già da tempo poiché i primi segni di tale svolta risalgono a Baumgarten, a Schiller… a quel cambiamento di paradigma, sorta di vera e propria coupure epistemologique, che accade laddove al filosofo-scienziato, il quale misura il proprio operare su modello della pratica scientifica (Leibniz e Spinoza tra i tanti), subentra il filosofo-artista che assume il procedere artistico quale proprio interlocutore privilegiato. Nietzsche è a pieno titolo un filosofo-artista e anche Deleuze si pone, per Zourabichvili, in questa direzione in quanto l’intera sua ricerca testimonia un dialogo costante con l’arte tanto che «la sua opera impone di chiedere cosa significa che un filosofo, per fare filosofia, abbia bisogno di confrontarsi con l’arte» (LA, 123), come si legge nel capitolo 14 che chiude il testo, L’ancoraggio estetico del pensiero di Deleuze. La risposta che Zourabichvili offre a tale domanda è articolata. Vi è di certo una sorta di triangolazione tra filosofia, arte e resistenza, non solo nella modalità già riconosciuta da Adorno per cui entrambe le pratiche devono darsi come compito quello di resistere al presente e al corrente, di fare resistenza al banale e al cliché, esplicando così un ruolo politico critico,  ma anche perché una filosofia che vuole portare il pensiero alla sua massima radicalità deve affrontare ciò che più resiste al suo elemento, ossia il sensibile, l’ambito di ciò che già Baumgarten definiva come l’eminentemente confuso. Ma la filosofia – in quanto ambito del pensiero distinto – a diretto contatto con il sensibile non può che tendere a ridurne la confusione, riportandola entro l’alveo della distinzione concettuale, poiché questa è la sua vocazione. La soluzione per lasciare al sensibile la sua potenza, ossia la sua natura confusa, è quella di passare attraverso la mediazione dell’arte che proprio nella confusione sensibile ha la propria materia. Questo non è, comunque, il solo motivo dell’interesse filosofico per l’arte. La creazione artistica si presenta alla filosofia come un operare sulla materia del confuso, dell’oscuro, capace di smovere – di toccare – quegli elementi dolorosi, malati anche, che l’artista condivide con gli uomini del suo tempo.

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Il capitolo 7, L’occhio del montaggio (Dziga Vertov e il materialismo bergsoniano) offre nella lettura esemplare del film di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa del 1929, l’immagine viva di un gioco artistico la cui regola di differenza estetica comporta effetti potenti di riconoscimento non mimetico.

Zourabichvili parte da un asserto tratto dalla cinefilosofia di Deleuze per il quale, in L’immagine-movimento, il cinema di Vertov è la realizzazione dell’in-sé dell’immagine, attraverso un concatenamento macchinico delle immagini-movimento, tanto che Vertov giunge per questa via a realizzare il programma materialista presentato da Bergson nel primo capitolo di Materia e memoria. Nel film sperimentale del 1929 il gioco dell’opera d’arte di Vertov soggiace alla regola della percezione non umana delle immagini, ottenuta attraverso un montaggio che mette in relazioni immagini molto lontane tra loro, non concatenate secondo il procedere dell’occhio umano; qui la differenza estetica, non mimetica, sta proprio nel far interagire le immagini della città che si sveglia (un tema comune ad alcuni dei film del periodo) per giungere alle condizioni di una percezione non-umana: ecco che Vertov mostra una giovane donna che si sveglia insieme ad una locomotiva lanciata nella sua corsa, il fotogramma della sua schiena nuda e poi una macchina da presa che pur indirizzata a lei, è situata in un altro punto della città e così via. 

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A questo punto Zourabichvili si chiede quale sia il senso di questa operazione artistica:

E perché dovremmo «disfarci di noi stessi, e disfarci noi stessi»? 

Di certo la ricerca di Vertov è mossa da un desiderio politico: essa è da collocare entro quella lettura della rivoluzione d’ispirazione «bergsoniana», già evocata a proposito di Barnet, come apertura di possibilità, di certo poco consona alla politica dell’apparato sovietico. La risposta che Zourabichvili offre alla domanda posta a Vertov rivela come la creatività messa al servizio della visione di un mondo colto da un occhio non umano ha di mira un potenziamento della vita, che poi è la destinazione ultima della vocazione terapeutica dell’arte […].

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