“[…] in molti di questi testi l’arte assume una
centralità che si evidenzia in differenti modalità, sia divenendo oggetto di
lettura filosofica in quanto considerata più capace della filosofia di essere
all’altezza dell’evento reagendo ad esso in modo affettivo, immediato e non
cognitivo; ma anche in quanto essa è una pratica di esperienza e di
sperimentazione (le due stanno sempre intrecciate) a cui la filosofia deve
ispirarsi per non decadere ad esangue astrazione.” – Cristina Zaltieri
“La letteralità e altri saggi sull’arte” è uscito in
Francia nel 2011 curato dalla filosofa francese specializzata nelle opere di
Gilles Deleuze, Anne Sauvagnargues e pubblicato cinque anni dopo
la morte del filosofo francese di origini armene François Zourabichvili (28
agosto 1965 – 19 aprile 2006) che, a soli 41 anni, ha deciso di interrompere la
sua vita proprio come aveva fatto dieci anni prima Gilles Deleuze.
È in uscita, nel 2022, per la casa editrice mantovana
Negretto Editore, la traduzione di questa raccolta di saggi che raccoglie
conferenze ed articoli selezionati da due amici di Zourabichvili, Philippe
Simay e Kader Mokkaden. La quasi totalità dei saggi presenti nella
pubblicazione sono inediti nei quali il tema centrale è l’arte.
François Zourabichvili ancor’oggi è poco conosciuto in
Italia malgrado le traduzioni delle monografie su Gilles Deleuze e Baruch Spinoza:
“Deleuze. Una filosofia dell'evento”, Ombre Corte 2002; “Il
vocabolario di Deleuze”, “Spinoza. Una fisica del pensiero”; “Infanzia
e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza”, Negretto Editore, 2002
– 2017. A marzo del 2018 Negretto Editore ha pubblicato un testo collettivo che
raccoglie gli interventi presentati il 2 febbraio 2017 all’Università Bicocca
di Milano al Convegno omonimo dedicato al filosofo dal titolo: “Il divenire
della filosofia di François Zourabichvili”.
“La letteralità ed altri saggi sull’arte” è curato e
tradotto da Cristina Zaltieri, docente di filosofia ai licei e cultrice di
filosofia all’Università di Bergamo. Dirige assieme alla stimata collega
Rossella Frabbrichesi la collana “Il corpo della filosofia” per Negretto
Editore. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati pubblicati per
gli editori Guerini e Mimesis.
Si ringrazia la casa editrice per aver concesso la
pubblicazione in anteprima di un estratto tratto dalla precisa ed
interessante presentazione di Cristina Zaltieri.
Estratto dalla
presentazione di Cristina Zaltieri
[…]
Nel caso dei saggi qui raccolti l’interesse che rivestono,
entro la produzione di Zourabichvili, è indubbiamente significativo. Sono tutti
posteriori alle quattro monografie pubblicate tra il 1994 e il 2003, mostrano
quindi la direzione che il pensiero di Zourabichvili andava prendendo nei suoi
ultimi anni di ricerca, una direzione che si potrebbe definire, utilizzando
un’espressione ricorrente nei saggi qui raccolti, una “svolta estetica”. In
primo luogo, infatti, in molti di questi testi l’arte assume una centralità che
si evidenzia in differenti modalità, sia divenendo oggetto di lettura
filosofica in quanto considerata più capace della filosofia di essere
all’altezza dell’evento reagendo ad esso in modo affettivo, immediato e non
cognitivo; ma anche in quanto essa è una pratica di esperienza e di
sperimentazione (le due stanno sempre intrecciate) a cui la filosofia deve
ispirarsi per non decadere ad esangue astrazione. In secondo luogo, si può parlare
di svolta estetica ponendo l’accento sulla accezione originaria del termine
«estetica» e sottolineare che la materia peculiare dell’operare artistico è il
sensibile confuso-oscuro che resiste al concetto ed insieme lo nutre ponendolo
in contatto con il fluire caotico della vita. La filosofia che opera nella
distinzione del concetto non ha presa immediata sul sensibile, ha bisogno della
mediazione dell’arte per entrare in contatto con tale elemento caotico e denso
di virtualità. Dunque, questi primi scritti
postumi, estrapolati dall’archivio Zourabichvili, fanno legittimamente pensare
che l’autore avesse in cantiere il progetto di un’opera dalla fisionomia nuova
rispetto alle sue precedenti, non più originata specificatamente dall’incontro
con un filosofo (anche se Deleuze resta un interlocutore costante), bensì
ispirata in buona parte a tre temi non separabili l’uno dall’altro, dato che si
richiamano tra loro in una trama di rimandi necessari: l’evento, la
letteralità, il gioco estetico. Per dirlo in sintesi, rinviando poi ad una più
distesa esplicazione: l’evento rimanda alla letteralità in quanto questa è
evento del pensiero, evento del senso nella scrittura; la letteralità rimanda
al gioco estetico laddove Zourabichvili individua nel riconoscimento non
mimetico, bensì ludico, il carattere imprescindibile dell’arte che ispira di sé
anche la filosofia e che si pone al servizio di una lettura non metaforica
delle «metafore». Ma, come si è detto, l’evento ha negli artisti dei testimoni
capaci di registrare le variazioni affettive che l’evento produce in loro con
una immediatezza che è preclusa ai filosofi.
[…]
Nel primo saggio con cui il testo si apre, Evento e
letteralità, conferenza tenuta dall’autore in occasione dell’inaugurazione dei
Fonds Deleuze, la letteralità e l’evento
sono legati insieme in quanto indicati da Zourabichvili come due direzioni
possibili per un lavoro su e attraverso Deleuze che sfugga all’esegesi e alla
commemorazione per cercare piuttosto di far deflagrare quella potenza di perturbazione
del pensiero ordinario e di corrosione dei clichés propria del pensiero
deleuziano, ma rimasta, a parere dell’autore, ancora alquanto inespressa nel
pensiero successivo.
La questione della letteralità, sorprendentemente poco
considerata dagli interpreti di Deleuze, viene assunta da Zourabichvili come
via maestra per praticare un pensiero dell’immanenza a partire dal discorso
stesso.
[…]
Occorre intendere, spiega Zourabichvili, questo reiterato
appello di Deleuze alla lettura letterale dei suoi testi: «letterale» non vuol
affatto dire «proprio», richiede invece di pensare oltre l’opposizione binaria
proprio/figurato. Prendiamo ad esempio l’uso di grande rilievo che
Zourabichvili fa del termine «chimera» nella sua ricerca su Spinoza. Chimera è
un termine che Spinoza stesso assume dalla mitologia dove esso designa un
mostro frutto dell’unione di corpi incompatibili tra di loro, leone, capra,
serpente o altri. Spinoza, osserva Zourabichvili, ci conduce a pensare che la
figura del Dio-Re è una chimera. Affermare che il Dio-Re è una chimera esige
che si pensi letteralmente il Dio-Re come l’impossibile fusione di due entità
inconciliabili quali la potenza dell’essere e il potere monarchico. Non si
tratta di una traslazione da un uso proprio del termine chimera, nel mito, ad
un uso figurato, in filosofia, né si tratta di un vedere come, ispirato alla
somiglianza tra i due termini, come pensa Ricoeur: il Dio-Re è realmente una
chimera, una entità mostruosa, perché la potenza infinita espressa negli
infiniti modi è incompatibile, ci insegna Spinoza, con il potere assoluto di un
solo modo – il monarca - sugli altri così come, di contro, la lettura di Dio come colui che ha governo
assoluto sul mondo fa a pugni con il Deus sive natura.
[…]
Nel capitolo 3, I concetti filosofici sono metafore? Deleuze
e il suo problema della letteralità si ritorna sulla letteralità come pratica
che esige l’atto di «credere» a ciò che la relazione inedita dà a vedere. Se si
prende ad esempio l’enunciato deleuziano-guattariano «il cervello è più erba
che albero», la sua lettura letterale poggia sulla relazione inedita tra
cervello ed erba tale da determinare un’esperienza diversa del cervello, non
più visto come un organo centrale di un sistema ramificato (ad albero), bensì
considerato come un «sistema acentrato, una molteplicità le cui connessioni
sono in parte probabilistiche e non predeterminate» (LA, 27). L’affermazione di
tale relazione inaugura così una nuova sensibilità sia neurologica che
filosofica, in quanto va a strutturare nel profondo la nostra esperienza; essa
consiste in un esercizio di «credenza», non intenzionale, non cosciente, per
l’appunto una sintesi passiva di un atto involontario.
[…]
Nel capitolo 6 Sul detto di Nietzsche, Zourabichvili ci offre
un esercizio esemplare di ciò che egli intende con sperimentazione affettiva
del testo, applicato ad uno dei più profondi e misteriosi aforismi di
Nietzsche: «Bisogna congedarsi dalla vita come Odisseo da Nausicaa – piuttosto
benedicendola che restando innamorati di essa». Zourabichvili si ripromette di
stare alla frase, di attraversarla ripetutamente senza volerla né spiegare né
interpretare, senza voler ricondurne le parole ad un significato nascosto […]
[…]
Restare all’immanenza del testo, di quello dell’aforisma in
questione ma insieme anche di tutto il testo nietzscheano, obbliga qui il
lettore a non confondere il distacco espresso dalla frase con figure come
quella dell’«ideale ascetico», perché non consone a Nietzsche che le ha sempre
combattute; inoltre richiede di confrontarsi criticamente con una vulgata che
vorrebbe l’amore per la vita come l’unico imperativo nietzscheano. È come se
nel suo asserto enigmatico Nietzsche ci indicasse un nuovo pathos per la vita,
oltre all’amore, che certo richiama al pathos della distanza attraverso
l’esercizio di una regola («bisogna che…») Tale regola potrebbe di primo
acchito riecheggiare l’esercizio stoico, ma in realtà se ne distanzia: infatti,
per Nietzsche non bisogna smettere di amare la vita al fine di non soffrire
troppo all’idea di separarsene, in modo così da prepararsi alla morte; bisogna invece non continuare ad essere
innamorati della vita per bene-dirla, ossia per renderle pienamente giustizia,
per omaggiarne l’incanto e la bellezza che le sono propri, proprio come il
saggio Odisseo ha riconosciuto l’incanto e la bellezza che promanavano dalla
giovinetta Nausicaa, senza con ciò volerla possedere, ma sapendo lasciarla.
D’altronde la vita, come Nausicaa, è l’inconsumabile che resiste ad ogni
interpretazione, che resiste al concetto, ossia al possesso.
[…]
Nel capitolo 8, Chateaubriand: la rivoluzione e il suo
testimone, è il testo Memorie d’Oltretomba a rivelare la postura del suo autore
nella sua funzione di lucido testimone dell’evento della rivoluzione del 1789
con cui si inabissava per sempre il mondo a cui Chateaubriand apparteneva
profondamente, non per questo ai suoi occhi esente da difetti, lasciando
intravedere il baluginare di un altro mondo alieno a sé, ma non per questo del
tutto indesiderabile. Chateaubriand si sente costantemente interpellato dalla
domanda sul divenire in cui egli è preso vivendo quel frammezzo fra il mondo
che scompare e quello che avanza; si sente come colui che sta tra due rive –
espressione ricorrente nel suo testo - gettato tra due secoli come tuffato alla
confluenza di due fiumi dalle acque agitate senza sapere quale terra potrà
accoglierlo. Ma l’analisi di Zourabichvili mira a mostrare il legame profondo
che sussiste tra la scrittura stessa di Chateaubriand, la sua creazione
artistica, dunque, e il suo destino di testimone della Rivoluzione. Si tratta
di una scrittura che, pur nel divampare delle più laceranti passioni
partigiane, esprime un’attitudine che Zourabichvili definisce di «ritiro
sollecito», in primo luogo dagli schieramenti netti, riconoscendo di incarnare
egli stesso il frammezzo perché scisso, contradditorio, definendosi
«repubblicano per natura, monarchico per ragione». Chateaubriand mira a dare
consistenza semiotica nella sua stessa scrittura alla sua esperienza di
testimone dell’evento, ossia di colui che sta tra due rive, tra due mondi e lo
fa attraverso un’arte scritturale della collisione melodiosa tra incomparabili
dove in una stessa frase due mondi estranei vengono tenuti insieme senza per
questo ridurre lo scarto tra i due. L’arte dimostra, anche in questo caso, la
sua capacità di dar corpo alla potenza di mutamento affettivo dell’evento.
[…]
Ricorrente in numerosi dei testi qui raccolti è
l’osservazione che la svolta estetica è un evento tutt’altro che recente,
occorso alla filosofia già da tempo poiché i primi segni di tale svolta
risalgono a Baumgarten, a Schiller… a quel cambiamento di paradigma, sorta di
vera e propria coupure epistemologique, che accade laddove al
filosofo-scienziato, il quale misura il proprio operare su modello della
pratica scientifica (Leibniz e Spinoza tra i tanti), subentra il
filosofo-artista che assume il procedere artistico quale proprio interlocutore
privilegiato. Nietzsche è a pieno titolo un filosofo-artista e anche Deleuze si
pone, per Zourabichvili, in questa direzione in quanto l’intera sua ricerca
testimonia un dialogo costante con l’arte tanto che «la sua opera impone di
chiedere cosa significa che un filosofo, per fare filosofia, abbia bisogno di
confrontarsi con l’arte» (LA, 123), come si legge nel capitolo 14 che chiude il
testo, L’ancoraggio estetico del pensiero di Deleuze. La risposta che
Zourabichvili offre a tale domanda è articolata. Vi è di certo una sorta di
triangolazione tra filosofia, arte e resistenza, non solo nella modalità già
riconosciuta da Adorno per cui entrambe le pratiche devono darsi come compito
quello di resistere al presente e al corrente, di fare resistenza al banale e
al cliché, esplicando così un ruolo politico critico, ma anche perché una filosofia che vuole
portare il pensiero alla sua massima radicalità deve affrontare ciò che più
resiste al suo elemento, ossia il sensibile, l’ambito di ciò che già Baumgarten
definiva come l’eminentemente confuso. Ma la filosofia – in quanto ambito del
pensiero distinto – a diretto contatto con il sensibile non può che tendere a
ridurne la confusione, riportandola entro l’alveo della distinzione
concettuale, poiché questa è la sua vocazione. La soluzione per lasciare al
sensibile la sua potenza, ossia la sua natura confusa, è quella di passare
attraverso la mediazione dell’arte che proprio nella confusione sensibile ha la
propria materia. Questo non è, comunque, il solo motivo dell’interesse
filosofico per l’arte. La creazione artistica si presenta alla filosofia come
un operare sulla materia del confuso, dell’oscuro, capace di smovere – di
toccare – quegli elementi dolorosi, malati anche, che l’artista condivide con
gli uomini del suo tempo.
[…]
Il capitolo 7, L’occhio del montaggio (Dziga Vertov e il
materialismo bergsoniano) offre nella lettura esemplare del film di Dziga
Vertov, L’uomo con la macchina da presa del 1929, l’immagine viva di un gioco
artistico la cui regola di differenza estetica comporta effetti potenti di
riconoscimento non mimetico.
Zourabichvili parte da un asserto tratto dalla cinefilosofia
di Deleuze per il quale, in L’immagine-movimento, il cinema di Vertov è la
realizzazione dell’in-sé dell’immagine, attraverso un concatenamento macchinico
delle immagini-movimento, tanto che Vertov giunge per questa via a realizzare
il programma materialista presentato da Bergson nel primo capitolo di Materia e
memoria. Nel film sperimentale del 1929 il gioco dell’opera d’arte di Vertov
soggiace alla regola della percezione non umana delle immagini, ottenuta
attraverso un montaggio che mette in relazioni immagini molto lontane tra loro,
non concatenate secondo il procedere dell’occhio umano; qui la differenza
estetica, non mimetica, sta proprio nel far interagire le immagini della città
che si sveglia (un tema comune ad alcuni dei film del periodo) per giungere
alle condizioni di una percezione non-umana: ecco che Vertov mostra una giovane
donna che si sveglia insieme ad una locomotiva lanciata nella sua corsa, il
fotogramma della sua schiena nuda e poi una macchina da presa che pur
indirizzata a lei, è situata in un altro punto della città e così via.
[…]
A questo punto Zourabichvili si chiede quale sia il senso di
questa operazione artistica:
E perché dovremmo «disfarci di noi stessi, e disfarci noi
stessi»?
Di certo la ricerca di Vertov è mossa da un desiderio
politico: essa è da collocare entro quella lettura della rivoluzione
d’ispirazione «bergsoniana», già evocata a proposito di Barnet, come apertura
di possibilità, di certo poco consona alla politica dell’apparato sovietico. La
risposta che Zourabichvili offre alla domanda posta a Vertov rivela come la
creatività messa al servizio della visione di un mondo colto da un occhio non
umano ha di mira un potenziamento della vita, che poi è la destinazione ultima
della vocazione terapeutica dell’arte […].
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