Da Einaudi
il libro intervista con Andrea Segre’, esperto di fama internazionale al cui
nome si lega l’“invenzione” del last minute market, entrato nel lessico come
sinonimo di recupero del cibo sprecato, e del parco agroalimentare italiano
noto come F.I.CO (Fabbrica Italiana Contadina).
Il giornalista Simone Arminio lo ha
affiancato nell’appassionante viaggio alla scoperta del cibo che “nutre” il pianeta:
nei laboratori e fra le aule dell’universita’, fra agricoltori e supposti
contadini, nelle industrie alimentari e nei supermercati, fino ai mercatini,
nelle nostre cucine, nei ristoranti e mense, e seduti in poltrona a guardare
gli spadellatori televisivi …insomma, un viaggio in tutti i posti dove c’è
cibo.
Ma quale cibo? Quello “medio”, collocato fra
due estremi: il cibo basso, spazzatura, e il cibo alto, per pochi eletti.
Mangiando “medio”, che vuol dire anche mediterraneo, si rivoluziona il nostro
stile di vita, il consumatore diventa fruitore, lo spreco un’opportunita’ di
relazione, il carrello una scelta responsabile.
Si scopre la sostenibilita’ della “media andatura”, ne’ troppo fast ne’
troppo slow: un cibo vero, giusto, sano, sufficiente, un diritto per
tutti.
La strada per nutrire un pianeta che e’ allo
stesso tempo troppo affamato e troppo sazio.
BOLOGNA, 10 marzo 2015 – E’ in libreria da martedì 10 marzo “L’oro
nel piatto” (Einaudi 2015, Passaggi, 194 pagine € 18), il nuovo saggio
dell’agroeconomista Andrea Segrè, firmato con il giornalista Simone
Arminio in un articolato viaggio-intervista alla ricerca del valore e
dei valori del cibo, per un nuovo equilibrio fra uomo, natura ed economia.
«Il
cibo – spiega Andrea Segrè - ha un grande valore e
rappresenta molti valori. E’ l’oro che, senza saperlo, possiamo mettere nel
nostro piatto. Oppure no. Perché il cibo ha il valore che sappiamo dargli, è
una questione culturale. Mangiare soddisfa un bisogno primario, non un
desiderio. Per questo il cibo dev'essere considerato un diritto, per tutti. E'
questa la vera sfida sul cibo, e il suo valore».
Restituire valore al cibo, d’altra parte, è
il leitmotiv dell’impegno ultraventennale dell’autore. Andrea Segrè, fondatore
e presidente di Last Minute Market, ha insegnato concretamente, all’Italia e
all’Europa, come si può prevenire lo spreco alimentare o comunque alimentare
circoli virtuosi di recupero, nei quali – come nella
migliore delle economie win win – vincono davvero tutti: chi è costretto a
smaltire, e può farlo senza il costo del rifiuto, chi ha bisogno di acquisire
cibo perché a basso potere d’acquisto, e persino l’ambiente, perché questo
incrocio avviene di regola a chilometro zero.
Oggi la ricerca di Andrea Segrè punta verso
l’educazione alimentare, «che è l’educazione civica del
nostro tempo e del futuro», e verso la ricerca del “cibo medio”,
quello che oggi rappresenta l’unica speranza per sfamare dignitosamente il
mondo.
«Medio, nel senso di non troppo alto e non troppo basso in termini di
qualità e di quantità – chiosa Segrè – Il cibo che sta in mezzo ai due
estremi piú noti fra i consumatori che mangiano troppo poco, gli affamati,
oppure troppo, gli obesi».
E’ questo, dunque, il vero “oro
nel piatto”: il cibo medio come concreta chance di presente e di futuro.
Secondo l’ultimo rapporto curato dall’Osservatorio Waste
Watcher di Last Minute Market / SWG lo spreco alimentare domestico – il
cibo ancora buono che finisce direttamente nei rifiuti - vale oltre 8
miliardi di euro, circa mezzo punto di PIL.
Mentre l’ISTAT - osserva Andrea Segrè - conta ormai più di 10
milioni di italiani che vivono e si alimentano in condizioni di povertà.
Dunque, il valore degli alimenti sprecati sarebbero pari a 800 euro a testa, se
la matematica non fosse un’opinione e il cibo si potesse effettivamente
recuperare. Per invertire concretamente la rotta, la via di uscita è ridare,
letteralmente, valore al cibo.
Il
viaggio de “L’oro nel piatto”, nella rivoluzione del cibo medio e di “media
andatura” - non il fast food, non necessariamente lo slow food, non
il cibo spazzatura e neanche il cibo biologico e a chilometro zero – è
stato avventuroso ed entusiasmante: il giornalista Simone Arminio ha
affiancato per mesi Andrea Segrè spaziando dai campi alla cucina, al
supermercato, al ristorante, in azienda, sulle bancarelle, all’università, in
tv, dal dietista… insomma, in tutti i posti dove c’è il cibo, in tutti i
sentieri che dallo spreco possono portare a un nuovo valore del cibo. Un
percorso ricco di sorprese, spesso piacevoli: perchè mangiando “medio” si
risparmia, e la Dieta Mediterranea costa 1/3 del fast food.
Una recente ricerca dell'Università di Bologna (2014) ha
infatti ‘certificato’ che una settimana al fast food costa oltre 130 euro,
mentre intorno ai 50 euro si può acquistare il ‘carrello- dieta’ mediterraneo,
sano ed equilibrato.
«La diffusione del cibo medio non potrà prescindere
dalla grande distribuzione organizzata – sottolinea Andrea Segrè - D'altra
parte le rivoluzioni alimentari non si fanno con pochi eletti e per
incidere davvero sui processi nutrizionali mondiali non è utile agire solo sul
chilometro zero e sul negozietto di quartiere: è necessario elevare il valore
delle produzioni di massa piú largamente distribuite.
A migliorare, insomma, dovranno essere i
prodotti disponibili sugli scaffali di un ipermercato, non certo quelli che una
piccola élite compra nei mercati della terra o direttamente dal produttore. In
quella fascia intermedia di cibi semplici, dal valore aggiunto piú alto che
saremo in grado di imporre al mercato produttivo semplicemente richiedendolo -
manifestandone il bisogno e la scelta - potremo trovare la giusta via di
mezzo tra un prodotto di qualità bassa e un cibo ricercato.
Il mercato è governato dalle scelte dei fruitori. E se il fruitore decide di
alzare l’asticella dei suoi bisogni, essendo disposto a spendere quel poco di
piú per mangiare in percentuale alla sua disposizione economica, grande o piccola
che sia, il mercato saprà trovare da sé il modo per soddisfare questo nuovo
bisogno intervenuto sui suoi prodotti.
Questa tendenza verso l’alto dovrebbe
condizionare tutta la gamma dei prodotti alimentari, trainando le piú basse
fino a renderle cibo medio. Eliminando il cibo spazzatura.
«Perché ormai – afferma Andrea Segrè – siamo in
grado di eliminarlo, e questa eliminazione deve essere per tutti. Siamo noi
fruitori medi che dobbiamo esercitare il nostro potere “del carrello” affinché
quello basso non venga piú prodotto».
Andrea Segrè
insegna Politica agraria internazionale e comparata all’Università di Bologna.
Fondatore di Last Minute Market, capofila europeo nella lotta allo spreco con
la campagna europea di sensibilizzazione “Un anno contro lo spreco”,
presiede il comitato scientifico del piano nazionale di prevenzione rifiuti ed
è presidente del CAAB - Centro Agroalimentare di Bologna. In questo suo ruolo
ha ideato il Parco Agroalimentare F.I.CO. Eataly World. Premio Artusi 2012, per
Einaudi ha pubblicato Economia a colori (2012). E’ presidente della
Fondazione Edmund Mach.
Simone Arminio,
giornalista, è cronista economico a «Il Resto del Carlino». Laureato in
Comunicazione e specializzato in Semiotica, ha preso parte all’avventura di
«Terra», quotidiano ecologista. Nel 2010 ha vinto il Premio europeo di
giornalismo Guido Carletti con un reportage da Srebrenica, in Bosnia.
L’ORO NEL PIATTO, APPUNTI
Fruitori, non consumatori: Qual
è la parola piú usata e abusata degli ultimi decenni? Senza dubbio il verbo
consumare, che vuol dire portare a compimento o distruggere. Siamo partiti dal
consumismo, negli anni Ottanta, per arrivare al consumatore, ovvero colui che
consuma.
Un termine che abbiamo esteso anche all’acquirente
dei cibi, ottenendo il doppio risultato di equiparare il cibo alle altre merci
e soprattutto di sostituire l’azione, bellissima, del nutrirsi per crescere,
del mangiare per vivere e per star bene, e magari trarne anche gioia e
godimento, con l’azione fredda, neutrale, pessimista e soprattutto negativa del
consumare. Che poi vuol dire appunto distruggere, far sparire, cancellare. Ma
ogni giorno siamo in grado di esercitare un grande potere, semplicemente
tenendo in mano una forchetta.
Le stagioni del cibo: negli
anni Ottanta e Novanta spopolava il culto del panino, del fast food, del cibo
come bisogno da soddisfare il piú velocemente possibile. Una tendenza durata
fino quasi a metà degli anni Zero. Gli anni Dieci hanno stravolto il sistema e
ribaltato il tavolo. Sono arrivati i cuochi, anzi, gli chef, e i programmi di
cucina, le sfide ai fornelli, arrivati in massa al paio con gli orti urbani, le
piantine sul balcone, la voglia di fare da soli, magari con qualche
aiutino.
Per i costi che ha, una produzione biologica sarà sempre
di nicchia, se non si allarga su grande scala. Il motivo è il prezzo del
prodotto finale, che va necessariamente tenuto alto per poter ripagare una
produzione complessa. Il passaggio a scala piú grande non si fa dall’oggi al
domani.
E nel frattempo? Nelle pause pranzo degli italiani, quasi
mai c’è di mezzo uno chef penta-stellato. In medio stat virtus: non sarebbe
meglio trovare la giusta via di mezzo tra la soddisfazione e il prezzo, tra la
praticità e la qualità? Ci sarà un compromesso tra fast e slow? Appunto, una
velocità media. Il cibo di media andatura. Stavamo andando nella direzione
sbagliata, questo è certo, ma forse sarebbe sufficiente correggere la rotta.
Invece, a un certo punto, abbiamo tirato il freno a mano.
L'educazione alimentare (non
sono un medico, ma mi informo). Se ogni cittadino comunitario consumasse
davvero le 5 porzioni di ortofrutta al giorno, si eviterebbero piú di 135 000
morti all’anno per malattie cardiocerebrovascolari. L’educazione alimentare è
come l’educazione civica, non se ne può fare a meno. Oggi, in Italia, questa
materia è lasciata alla buona volontà, peraltro molto estesa, degli insegnanti
e dei dirigenti scolastici, e resta senza risorse.
Il gusto e gli sfizi:
parto dal presupposto che la frutta e la verdura che consumo, nel 99% dei casi,
è quella di stagione, ma non vedo un problema insormontabile nella coltivazione
di un certo numero di fragole a gennaio per soddisfare il mercato minoritario
dei gelati alla fragola o delle torte alla frutta. E in quel caso, tra l’altro,
non mi stupirei e non mi indignerei se la fragola di febbraio non avesse un
sapore eccezionale.
Lo spreco e il circolo velenoso cibo-
pattumiera I dati dimostrano che la grande distribuzione
ha soltanto le quantità dalla sua parte, ma non certo le proporzioni. In un
supermercato italiano medio lo spreco di cibo si attesta assai meno che sull’1%
del totale. In un campo o in un’azienda agricola la percentuale schizza già
attorno al 3%. Dati, in certa misura, fisiologici.
Ma lo spre-co principale avviene nelle nostre case: sa
che ogni famiglia butta via in media due etti di cibo a settimana? Fa quasi un
chilo al mese. La pattumiera è diventata la metafora della nostra società tanto
che, a un certo punto, c’è stato come un transfert sulla società stessa.
Chi sono i poveri? Scarti della società, pattumiera
sociale. Persone non piú buone, non piú in grado di mantenersi ancora sane. E
dove vanno, perciò, gli scarti alimentari? Nella pattumiera o al limite nella
mensa dei poveri, ad alimentare quei rifiuti della società. È scioccante ed
eclatante: abbiamo esteso il concetto di diversità, di alterità del prodotto
anomalo ma buono, del pacco di pasta non piú vendibile perché danneggiato
eppure ancora buono, all’uomo che la società non accetta piú perché non è piú
in grado di rispettare determinati canoni come lavorare, lavarsi e vestirsi
bene. È il rifiuto del rifiuto: l'estensione del concetto dalle cose alle
persone.
L’ORO NEL PIATTO, PARADOSSAL_MENTE ...
Paradosso globale:
adottiamo bambini che, dall’altra parte del mondo, muoiono di fame, e
buttiamo ogni giorno nel pattume chili e chili di cibo ancora buono, ottenendo
un doppio risultato negativo: sprecare il denaro con cui lo abbiamo acquistato
e produrre tonnellate di spazzatura che poi pagheremo, a caro prezzo, per farle
smaltire. Intanto i piú poveri mangiano cibo spazzatura: junk food low
cost, cibo spazzatura a basso prezzo.
Paradosso estetico:
spende piú per calare di peso che non per mangiare
Paradosso tricolore: noi
italiani abbiamo un pessimo rapporto con il cibo, sebbene il nostro Paese sia
dotato di un patrimonio agroalimentare che non ha pari nel mondo: nel senso di
ricchezza e biodiversità colturale e culturale. All'estero tutti vogliono
prodotti italiani - è l’Italian sounding, spaghetti, tortellini,
lasagne, parmigiano, aceto balsamico e via andare - ma noi stessi
mangiamo male in casa nostra. Non siamo (più) in grado di riconoscere l’oro che
abbiamo nel piatto. Ci complessiamo davanti a una tavola imbandita di cibi
genuini, magari in un consesso di amici, per poi concederci scappatelle
quotidiane al distributore automatico del nostro ufficio, in settimana.
Paradosso etnico-modaiolo: se
vogliamo mangiar bene, perchè rifugiarci in costose nicchie del cibo
biologico, del vino biodinamico, della pizza al kamut, quando poi questi
prodotti incideranno di uno zerovirgola sull’economia del nostro nutrimento
settimanale? È possibile essere continui e coerenti? O dobbiamo spingerci verso
regimi alimentari sempre piú estremi: vegetariani, vegani, crudisti,
macrobiotici? Sono mode, tendenze o cosa?
Paradosso dello spreco alimentare: ci
aiuta per contrapposizione, recuperare il cibo significa coglierne i
valori. Non soltanto economici e ambientali, anche quello economico.
Il cibo non è una “cosa” o una merce qualsiasi, non si rottama, non si rigenera
né sostituisce.
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