Avvenire.it 02 novembre 2009
Nella vita moderna, ci sono soprattutto due cose che mi sembrano pericolose e imponderabili: da una parte, il nostro sistema monetario e finanziario e, dall'altra, il rischio che corriamo di una guerra devastante. Nel nostro sistema monetario e finanziario non c'è proprio niente di scientifico. È cresciuto, ed è diventato sempre più complesso nell'arco di circa un secolo, a partire da origini molto semplici. Trecento anni fa, l'edificio aveva a mala pena cominciato a levarsi dal suolo, la maggior parte della proprietà era di tipo immobiliare, la maggior parte delle persone viveva direttamente dei prodotti della terra, la maggior parte delle transazioni economiche avveniva in contanti, il commercio con l'estero era ancora relativamente poco sviluppato, la forza lavoro era legata al territorio.
Quasi tutto il mondo si trovava al livello a cui la Cina è rimasta in gran parte ancora oggi: andava avanti praticamente senza batter moneta. Dal punto di vista del finanziere e dell'industriale moderno, era un mondo primitivo. Ebbene, su quella base rozza e sicura è stato costruito il sistema di convenzioni e di supposizioni sul denaro e sul credito più azzardato, sperimentale e incerto che si possa immaginare.
Vi è cresciuto un vasto sistema di prestiti e di debiti, una rete mondiale di società per azioni che comportano rapporti in realtà assai bizzarri. Io, per esempio, mi ritrovo a possedere (almeno in parte) una banca in Nuova Zelanda, una ferrovia a Cuba, un'altra in Canada e varie in Brasile, una centrale elettrica nel quartiere londinese di Westminster, e così via, e utilizzo titoli e azioni come se fossero denaro fruttifero. Se ho bisogno di soldi, vendo una quota di ferrovia, proprio come si cambierebbe una banconota da cento sterline; se invece ho più contanti di quanti non me ne servano nell'immediato, compro un po' di azioni. So che il valore di queste azioni oscilla, a volte in modo considerevole, e che anche il potere d'acquisto dei biglietti di banca che prendo oscilla rispetto alle cose che voglio comprare; so, in effetti, che tutto il sistema (che esiste da appena un paio di secoli e che sta diventando sempre più euforico e vertiginoso) ondeggia, trema, si torce e si flette in continuazione.
Tuttavia, è solo quando si verifica una grande crisi, come quella del 1907, che mi rendo conto che forse non c'è limite a queste oscillazioni, che forse tutto quell'edificio ampio e caotico presto crollerà fragorosamente. Perché non dovrebbe? Sfido qualunque economista o esperto di finanza a dimostrare che non possa farlo. Che nel breve arco della sua esistenza ciò non sia ancora accaduto non dimostra nulla. È come affermare che un uomo non può morire perché non lo ha mai fatto prima. Altri uomini sono morti prima di lui, così come altre civiltà sono crollate, se non di disordini finanziari acuti, di disordini finanziari cronici.
L'esperienza del 1907 ha mostrato molto chiaramente come può avvenire un crollo. Un panico finanziario, come una valanga, è una cosa molto più facile da iniziare che da fermare. Crisi precedenti sono state arginate soltanto grazie alla fortuna; quest'ultima crisi negli Stati Uniti, per esempio, ha trovato un'Europa forte, prospera e pronta a prestare soccorso. In ogni periodo di crisi si realizza un'imponente dislocazione di imprese, ampie moltitudini di uomini cadono nella disoccupazione, ci sono gravi disordini sociali e politici; ma alla fine, almeno fino ad ora, sembra che le cose si siano sempre riaggiustate.
Ora immaginate però un'ondata di panico un po' più universale – e le ondate di panico tendono ad essere più ampie di quanto non fossero in passato. Immaginate che quando a New York cadono tutti i titoli, l'oro si rivaluta e la gente spaventata comincia a vendere gli investimenti e a fare incetta d'oro, la stessa cosa accada in altre parti del mondo. Se la scala del problema aumentasse anche solo di due o tre volte, credete che il sistema potrebbe riprendersi? Immaginate grandi masse di uomini senza lavoro, arrabbiati e selvaggi, in tutte le nostre grandi città; immaginate le ferrovie che funzionano con personale ridotto a salari ridimensionati o bloccate dai lavoratori in sciopero; immaginate i fornitori che smettono di consegnare le merci ai commercianti al dettaglio, e i dettaglianti che esitano a fare credito.
Si giungerebbe a una fase in cui anche la polizia e l'esercito, che dovrebbero mantenere l'ordine nelle strade, si ritroverebbero a corto di razioni e senza paga settimanale. Ciò che noi moderni, con i nostri miseri 300 anni di sicurezza alle spalle, non comprendiamo è che, data una particolare combinazione di elementi casuali, le cose che di solito attraversano alti e bassi potrebbero cominciare a precipitare velocemente – andando sempre più giù. Che cosa faresti, caro lettore (e che cosa farei io) se la recessione continuasse indefinitamente? E questo mi porta al secondo grande pericolo della civiltà moderna: la guerra. Abbiamo sviluppato eccessivamente la guerra.
Mentre abbiamo lasciato l'organizzazione della pace ai metodi inefficaci, lenti ed egoistici dell'iniziativa privata; mentre abbiamo lasciato l'educazione delle nostre popolazioni al caso, le loro menti alla carta stampata più scadente e le loro ricchezze ai fabbricanti di droga, abbiamo portato avanti l'arte della guerra secondo linee rigorosamente scientifiche e socialiste. Abbiamo destinato senza alcuna esitazione tutte le risorse della comunità, e una parte enorme della sua intelligenza e della creatività, al miglioramento e alla costruzione dell'apparato di distruzione. Tutte le cose procedono strisciando, tranne l'arte della guerra: quella sfreccia in avanti veloce. Su ciò che accadrebbe se adesso le armi cominciassero a sparare non ho ombra di dubbio. Ogni anno c'è stato un aumento sconcertante. Ogni Stato moderno è più o meno come un battello a vapore malfermo e mal costruito in cui qualche idiota ha messo in posizione e caricato un cannone enorme, senza alcun dispositivo in grado di assorbirne il rinculo. Che quel cannone colpisca o manchi il bersaglio quando sarà esploso, di una cosa possiamo essere assolutamente certi: farà colare a picco il battello.
Herbert George Wells
(traduzione di Laura Talarico)
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