A circa un'ora dalla messa in scena, ho il piacere di incontrare Eugenio Barba, di ritorno dalla Danimarca. Porta dei sandali, è abbronzatissimo e possiede una rara energia vitale.
Nel 1964 lei fonda, in Norvegia, l'Odin Teatret, un progetto che dura da cinquant'anni. E' impossibile non chiederle un confronto col nome più celebre del teatro norvegese: Henrik Ibsen.
Il tipo di drammaturgia è diversa. Quella dell'Odin si basa su dinamiche fisiche, ritmiche, emotive, mentre quella di Ibsen è narrativa, verbale. Tuttavia egli ha avuto il merito di apportare una delle più grandi riforme del teatro contemporaneo: scrive pièce che non corrispondono più a ruoli fissi. Insieme a Strindberg, Checov e Pirandello ha contribuito alla trasformazione del teatro del '900.
Sembra di capire che al centro del suo teatro ci sia il corpo, più che la parola. Ne “La Vita Cronica”, ad esempio, spesso le battute vengono recitate in lingue straniere, che non capiamo. Qual è dunque il ruolo del corpo?
Il teatro è caratterizzato dal fatto che vediamo delle persone viventi di fronte a noi. Senza persone non c'è teatro. Pensiamo agli spettacoli di danza, per esempio, a quanto colpiscano per la loro dinamicità. I teatri asiatici hanno attori specializzati nell'essere cantanti, danzatori, cosa che nella tradizione europea non è stata sviluppata e si è completamente persa. In Europa l'unico ruolo che si si è dato all'attore è quello dell'originalità, dell'interpretazione. Mentre l'Odin svolge un lavoro importante sulla formazione dell'attore, a 360 gradi.
Grotowski, suo maestro, ideò una rivoluzionaria tecnica di allenamento per gli attori. Come avviene la formazione dell'attore all'interno dell'Odin?
Ogni attore ha una parte sommersa, che non viene vista dallo spettatore. Da cinquant'anni l'Odin fa praticare ai suoi attori quello che noi chiamiamo “training”. All'inizio è un modo di introdurre l'attore in un determinato ambiente attraverso degli esercizi fisici. Una volta integrato, il training ha un'altra funzione, quella di creare le tendenze individualistiche che rompano gli orizzonti comuni. Segue una terza fase, quella “per sé”, che non riguarda lo spettacolo ma è una parentesi quotidiana del training, che l'attore porta nella sua vita.
Quindi forse è questa la risposta alla domanda che lei stesso si è posto“Cos'è un attore quando non ha con sé uno spettacolo”?
Sì. La scoperta avvenne nel Salento. Volevamo fare un esperimento, uno scambio di realtà e luoghi nell'Italia meridionale. Cominciò tutto da lì, capimmo che tutto ciò che appartiene al mondo segreto dell'attore può essere usato al di fuori del teatro.
Come si può tornare a parlare, senza annoiare, dopo cinquant'anni di ininterrotta attività?
Sbarazzandosi di tutto quello che si è fatto fino a quel momento. Liberarsi della parola. Per fare “La Vita Cronica” ci sono voluti quattro anni. Siamo entrati in sala senza niente. La difficoltà, quando si mette in piedi un nuovo spettacolo, è sempre quella di dimenticare quello che si è fatto in passato. Certo, alcune caratteristiche ritornano sempre.
Per esempio, la multiculturalità, la mescolanza di genti, paesi, tradizioni. Lei ha sempre viaggiato tanto. Norvegia, Polonia, Danimarca, India. Cosa significa essere “itinerante”?
I personaggi de “La Vita Cronica” rappresentano contesti diversi e sviluppano una rete di associazioni. Ci sono la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un ragazzo colombiano, una violinista italiana, eccetera. Si può essere itineranti in due dimensioni diverse, nello spazio e nel tempo. Si può viaggiare nel mondo anche stando seduti in una biblioteca, a studiare geografia. Essere itinerante è soprattutto una categoria dello spirito.
(riflessioni raccolte a Roma da Marina Carbone)
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