LE CINQUE ROSE DI JENNIFER
Di ANNIBALE RUCCELLO
Regia di AGOSTINO MARFELLA
Con Leandro Amato e Fabio Pasquini
scene e costumi Carlo De Marino
voci della radio Gioia De Marchis Giannini e Enzo Avolio
foto Pino Le Pera
Luci Zothause
produzione: Compagnia Teatro Il Quadro
Dopo il grande successo riscosso nelle precedenti due edizioni, torna in scena a Roma per il terzo anno, uno dei testi più belli di Annibale Ruccello. Sarà in scena al Teatro dell’Orologio – Sala Grande, dal 19 ottobre al 6 novembre, Le cinque rose di Jennifer, con Leandro Amato e Fabio Pasquini, per la regia di Agostino Marfella. Un omaggio ad Annibale Ruccello; unico suo spettacolo sulla piazza romana, nell’anno del 25° anniversario della morte del grande commediografo, attore e regista di Castellammare di Stabia. Punta di diamante della drammaturgia moderna italiana, Ruccello risulta essere tra i più interessanti autori della scuola napoletana. Lo spettacolo, in una particolare scrittura scenica, vuole essere un tributo al Teatro del grande autore partenopeo.
Anni '70. La piéce, ambientata nel quartiere dei travestiti della periferia di Napoli, racconta, con ritmo incalzante e grande “suspence”, il mondo dei travestiti. Ruccello narra il dramma della solitudine, raccontando le storie di vita di Jennifer (Leandro Amato) ed Anna (Fabio Pasquini), due travestiti di matrice genettiana. "Jennifer" è un travestito malinconico, sensibile e romantico che vive in un monolocale a Napoli. Terrorizzato dal serial killer che sta mietendo vittime nel suo quartiere, non esce più di casa da molto tempo. Non esce più, inoltre, perché sta aspettando una telefonata da Franco, l'ingegnere di Genova con cui ha intrapreso una relazione tempo prima …con quella chiamata, saprebbe che è ritornato da Milano. Purtroppo è ben difficile capire quando (e se) Franco chiamerà: il telefono di Jennifer, per un disguido telefonico, sembra infatti intercettare tutte le chiamate del quartiere. Proprio per questo motivo a casa sua arriva "Anna", un altro travestito che vive nel suo quartiere. I due parlano: Jennifer le racconta della sua famiglia e di Franco, Anna delle disgrazie che ha avuto nella sua vita e del rapporto speciale che ha con la sua gattina, Rosinella. Una telefonata arriva, ma Jennifer liquida l'interlocutore senza troppi problemi... salvo poi chiedersi se quella chiamata in realtà fosse per Anna, che frustrata, se ne va. L'attesa continua. L'uomo comincia a perdere la speranza. All'improvviso, ritorna Anna, disperata: il maniaco ha ucciso la sua adorata Rosinella…Ma l’attesa di Jennifer continua, aspettando una telefonata che potrebbe non arrivare più…
Note di regia di Agostino Marfella
“ Ritengo che Le cinque rose di Jennifer, testo cult di Annibale Ruccello (1980), con il tempo e le diverse edizioni, abbia acquisito uno spessore stilistico che gli ha conferito il valore di un piccolo classico del teatro contemporaneo.
La piéce, ambientata in un quartiere degradato della periferia di Napoli, racconta, con ritmo incalzante e grande “suspence”, il mondo dei travestiti. L’autore, narrando le storie di vita di Jennifer e Anna, esprime il dramma amaro della solitudine. Aleggia nella vicenda un’atmosfera da thrilling psicologico, che tiene gli spettatori con il fiato sospeso, fino all’ultima battuta… Si muovono, attraverso essa, i due protagonisti, povere anime perdute, confinate in un ghetto metaforico, tesi alla ricerca disperata di una propria dimensione; pronti a riappropriarsi del pudore e della dignità violati e derubati dai finti valori “borghesi”; e disposti a tutto, pur di elemosinare un po’ di affetto, fosse anche solo qualche parola attraverso il filo di un telefono. L’opera contiene una squarciante sensazione poetica di squallore e di frustrazione, nel cui contenuto il tragico si fa grottesco. Il palcoscenico grida i pensieri di Jennifer, ossessivi e maniacali, mentre la sua maschera recita il suo ultimo delirio d’amore per Franco, il maschio che probabilmente non esiste.
Nel mettere in scena lo spettacolo ho sottolineato la ritualità del testo con atmosfere antinaturalistiche, ispirandomi, oltre a Genet, alla tradizione nordica dei Kammerspiel, (principalmente a Strindberg e ad Ibsen nella scena finale).
La storia assume quindi i contorni di un lucido delirio, in cui la solitudine può trasformarsi, degradandosi, nello svilimento dei miti e dei modelli. Deflagrazione dei linguaggi della comunicazione, che sfocia in una lacerante ed intensa recita, nel vano tentativo di ritrovare una propria identità. L’effetto che ne risulta è quello di un grande cerimoniale scandito dall’attesa ossessiva dell’amore”.
Agostino Marfella
TEATRO DELL’OROLOGIO - SALA GRANDE
Via de’ Filippini, 17/a
Orario spettacoli: dal martedì al sabato alle 21,15 - la domenica alle 17,30
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