Jakob Philipp Hackert , alias l’ antesignano creatore delle cartoline illustrate che avrebbero fatto la fortuna delle nostre città d’arte.
Sintesi forse troppo stringata, ma efficace di una “vis creativa” che riscosse successi e non solo alla Corte dei Borboni. Come in un gioco di prestigio le tele materializzano il Settecento che visse l’artista, le sue atmosfere, insomma dove Hackert operò. Scenograficamente precise, le sue gouaches hanno saputo fermare l’attimo con la stessa implacabile precisione di uno scatto fotografico, magicamente trasfigurato dalla sensibilità di un poeta. La Scuola di Posillipo prese le distanze da quei quadri ridondanti di pescatori e navi, di greggi e masserie sparse: troppo commerciali le gouaches di Hackert, pur amate dal Re e custodite in gran numero nella Reggia di Caserta almeno quanto nei musei del Vecchio Continente.
“La linea analitica della pittura di paesaggio in Europa” ovvero il Settecento in scena. Allestita dal 14 dicembre al 13 aprile 2008 nella sontuosa dimora in vista del Taburno, la Mostra ha dato convegno ad opere dell’artista sparse per il mondo.
Una prima, in Italia almeno, con tele provenienti dallo “ Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz” e dalla “Alte Nationalgalerie “ di Berlino, dalle realtà museali di Brema, Budapest, Dresda, Düsseldorf, Francoforte sul Meno, passando per il Museo del Prado e l’ Ermitage di San Pietroburgo.
I quadri che raffigurano i Porti del Regno, dipinti tra il 1789 e il 1792 per decorare gli ambienti della Villa Favorita presso Portici, rappresentano una contraddizione: la folla di figurine pittoresche e presepiali è in aperto contrasto con il “sublime” dei paesaggi iperreali e visionari, negazione della stessa veduta. Stranamente il sermo sublimis si mescola al sermo umilis. Ma l’ apparente incoerenza si spiega immaginando un intervento della committenza. Le tele di Hackert tappezzano lo "Studio" reale nella Reggia di Caserta e non solo quell’ ambiente.
Le gouaches del pittore di corte ritraggono i Reali, i loro passatempi, ma con una marcia in più racchiusa nella capacità di interpretare fedelmente la volontà di Ferdinando di Borbone, il suo voler dare un’unica identità ad una folla eterogenea di uomini e donne che costituivano il popolo del suo regno. Il Re è accontentato: nelle gouaches dai colori pastello prende vita la sua gente, i porti affollati di mercanzie, di navi, di uomini e donne con i costumi del regno.
Questo rese Hackert uno dei protagonisti più gettonati della pittura di paesaggio nell’ Europa della seconda metà del XVIII secolo.
L’artista costituì un “unicum”, ma non per la tecnica. Nel Settecento, facevano ricorso “à la gouache” altri noti paesaggisti che dipingevano per una élite di viaggiatori aristocratici, soprattutto inglesi. Commissionati ai pittori da personaggi colti, nobili e dai figli della ricca borghesia europea in viaggio d’istruzione, le gouaches erano riservate a personaggi in buona parte dai gusti raffinati. Di certo dalle notevoli possibilità finanziarie. Per questi turisti valeva il tempo “slow” e vennero create opere meditate, ispirate.
Costituita da pennellate rapide e decise con essiccamento veloce dei colori, la tecnica era già presente nella Napoli del 1400.
Hackert interpretò la volontà di un Re e l’anima di un popolo: la gouache era uno dei generi più amati nella storia del vedutismo partenopeo.
La Mostra allestita nella Reggia di Caserta celebra i duecento anni dalla morte del pittore tedesco che, con le sue opere, mantenne uno standard qualitativo elevato. E se con il rispetto calligrafico dei particolari ci ha affidato una Napoli troppo oleografica la tecnica da lui perfezionata ha fatto scuola, attirandosi consensi e committenze, il che non guasta.
Oggi le cartoline dal Settecento create dal pittore di Corte restituiscono l’ atmosfera dei porti visti e ritratti, di un paesaggio dichiaratamente bucolico e ignavo della tempesta che ,con la Rivoluzione del 1799, si sarebbe abbattuta sul Regno.
credo ci sia un valore aggiunto, un pò come è accaduto grazie ad artisti come il Canaletto, Fattori, Tranquillo Cremona fino ai contemporanei come Brancaccio, ovvero quello di restituire la sintesi del momento perduto fino alla ricostruzione, tarsia su tarsia, di un potenziale istantaneo che si tramuta paradossalmente in emozione perenne.
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