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sabato 16 ottobre 2010
Il “Premio Italia diritti umani 2010
Bad news are good news”. Alla ricerca di un giornalismo responsabile
Le sirene di un’ambulanza che si fa largo tra i feriti dopo l’ennesimo attacco kamikaze, la mano di una bambina che fuoriesce dai detriti di una casa spazzata via da terremoto, una gamba frantumata da una scheggia: sono tra i soggetti più ricercati dalla telecamere delle tv di tutto il mondo. “Bad news are good news”, le cose negative attraggono più di quelle positive. E non solo fanno notizia, ma creano anche opinioni, animano il dibattito sulla scena internazionale, trasmettono ansie a paure. La difesa dei soggetti più deboli, la lotta alle varie forme di discriminazione e contro la violazione sistematica dei diritti elementari, il forte richiamo ad un’informazione libera sono stati il “leit motiv” della giornata di dibattito organizzata ieri a Roma dalla Free Lance International Press dal titolo “Civiltà Globale e Diritti Umani”. L’edizione 2010 del “Premio Italia Diritti umani”, nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte (Amnesty International, Antigone, Comitato Paul Rougeau, Comunità di S.Egidio, Emergency, Italians for Darfur, Laogai Research Foundation Italia, Medici contro la tortura, Robert F. Kennedy Foundation, Wcrp) di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, questa sorta di “oscar della solidarietà” rappresenta un sostegno simbolico a chi lotta veramente,sacrificando spesso gran parte della propria esistenza per aiutare il prossimo. Un merito che ricade sulla responsabilità dei giornali o meglio su chi i giornali li fa e li scrive. I mass media sono gli intermediari delle informazioni attraverso cui si veicola la realtà che ci circonda; possono distorcere o trasmetterla in modo parziale, evidenziare solo alcuni aspetti, idee, azioni e tralasciarne altri. Insomma hanno una grande responsabilità nei confronti della società, di chi non ha il contatto diretto con le fonti, di chi vuole conoscere e sapere la verità ma non ha altri mezzi a sua disposizione.
Per il reportage dedicato alla strage di Bhopal in India, andato in onda sulla Rai lo scorso aprile, la giornalista Chiara Tiezzi con “L’industria della morte” si è aggiudicata il premio Italia diritti umani 2010. Nel 1984, decine di tonnellate di sostanze tossiche fuoriuscirono dallo stabilimento di pesticidi della Union Carbide, oggi Dow Chemical Company. Circa mezzo milione di persone furono esposte ai gas tossici. Nel giro di pochi giorni ci furono tra le 7.000 e le 10.000 vittime e altre 15.000 persone morirono nei 20 anni successivi. A distanza di 26 anni, l'area non è stata bonificata e più di 100.000 persone continuano a subire gli effetti della contaminazione mentre i sopravvissuti sono ancora in attesa di ottenere una riparazione equa per le sofferenze che il disastro ha provocato. La giornalista, si legge nelle motivazioni della premiazione, “con grande sensibilità e minuziosa ricerca delle fonti, ha raccontato le campagne e le iniziative portate avanti da Amnesty International e dalle associazioni indiane per i diritti umani, dando voce alla richiesta di verità e giustizia di migliaia di sopravvissuti e di un numero ancora maggiore di persone che ancora vivono in una terra inquinata”.
Tra gli altri premiati per l’edizione 2010 c’è anche l’autore televisivo Umberto Rondi che nei suoi documentari (tra tutti “Caccia ai numeri primi” , Il volo dello sciamano” (Rai), “Le vie della salute” (Sky)) e del programma “Uno spot per la vita”, si è sempre contraddistinto “per la sensibilità con cui ha trattato le tematiche dei diritti umani, dalla realtà dei migranti a quella dei malati di mente passando per la negazione del diritto alla salute , in particolare per le trasmissioni sui diritti umani in Birmania”.
E per finire c’è chi come Enrico Calamai, ha saputo sposare la propria carriera, quella di diplomatico, con una causa che poi è diventata manifesto della propria esistenza. Lo "Schindler argentino” ha saputo dar voce, a trent’anni da quell’orrore, ai silenzi di un’intera generazione: quella dei desparecidos in Argentina. Calamai, rischiando in prima persona, non solo raccontò il dramma della tortura, degli omicidi, dell’arbitrio perpetrato in centinaia di prigioni sotterranee sparse in tutta la città di Buenos Aires, ma contribuì a condannare otto militari argentini, testimoniando nel processo contro di loro e a mettere in salvo, facendoli espatriare, 300 oppositori al regime. Il suo libro “Niente asilo politico” ha rotto il silenzio su un capitolo drammatico della nostra storia recente. Trentamila persone morte o sparite che ancora oggi stentano a trovare spazio nel circuito ufficiale dei media.
Svolgere bene la nostra professione è diventato sempre più difficile. Al di là del conteggio dei tanti giornalisti morti sul campo (e sono tantissimi), il ruolo dell’informazione che ci viene dal “fronte” è ancora legato alle tentazioni ambigue che gli inviati si trovano ad affrontare quotidianamente tra ciò che si deve dire è ciò che non si può raccontare. E’ bene ribadire che non tutto si può ridurre alla pratica delle notizie “ufficiali”. Fare il giornalista è un mestiere “bello da morire”. Però, qualche “distorsione” tra il ruolo importante che i media possono svolgere per informare ogni giorno l’opinione pubblica e le modalità sull’effettivo utilizzo dei media di massa a livello globale, restano e non sono secondarie. Uscire dalla logica dell’audience e veicolare messaggi che possano dare coscienza non è facile. Bisogna “mediare” con il direttore, con il caporedattore , con l’editore o il politico di turno. Quali sono i segni più lampanti? Provate a calcolare su 1000 ore di telegiornale quanti minuti sono dedicati a tematiche come povertà, le carestie e le crisi umanitarie .Di sicuro dare piccoli spazi in agenda sui temi sociali, magari relegandoli in terza serata, non porta da nessuna parte
Daniele Memola
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