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lunedì 24 novembre 2008

QUALE FUTURO PER IL SINDACATO CONFEDERALE?

HO CHIESTO AL RESPONSABILE DEL LAVORO DEL SINDACATO CONFEDERALE DELLA CGIL DI FARE IL PUNTO SU UN ARGOMENTO DI ESTREMA ATTUALITA'.

di Raffaele Pirozzi


QUALE FUTURO PER IL SINDACATO CONFEDERALE ITALIANO*

di Renato Fioretti


La lettura dei dati relativi alla situazione economica che il nostro paese si trova ad affrontare non si presta ad alcun dubbio. Siamo in una fase di recessione e quella del lavoro rappresenta una vera e propria emergenza nazionale.

Il dramma è che ci si comporta, a livello politico, come se il problema non esistesse!

Infatti, nel mentre il mercato del lavoro risente sempre più pesantemente di quella che ormai si presenta come una lunga e travagliata fase involutiva - basti pensare alla situazione (sempre più grave) presente nella grande industria, con l'aumento esponenziale del ricorso alla cassa integrazione e alle crescenti difficoltà che coinvolgono (anche) le ex "isole felici" del famoso Nord-est del paese - l'attività prevalente della compagine governativa continua a essere caratterizzata dalla "lotta ai fannulloni" e, tra una nomina alla Commissione di vigilanza Rai e l'altra, dall'ennesima legge cancella-reati valida per le condanne fino a quattro anni, dalla corruzione al falso in bilancio.

In questo quadro, giacché le eccedenze occupazionali presentano - secondo il parere di molti esperti ed economisti - un carattere prevalentemente strutturale (almeno per il medio periodo), piuttosto che congiunturale, la questione "lavoro" e le modalità attraverso le quali farla rientrare nell'agenda politica della maggioranza di governo (nonché in quella dell'opposizione), rappresentano un'esigenza ineludibile.

Purtroppo, da questo versante, la situazione è (pesantemente) compromessa!

Infatti, le motivazioni reali che - a mio parere - hanno determinato l'aspra contrapposizione che caratterizza gli attuali rapporti tra le tre Confederazioni sindacali non agevolano un impegno comune e rendono veramente difficile ipotizzare che al lavoro possa tornare a essere riconosciuta quella "centralità" che ha sempre rappresentato, nel passato del sindacalismo italiano, un valore inalienabile!

Tra l'altro, ritengo che limitare l'analisi al solo aspetto "politico" dei contrasti sorti tra la Cgil da un lato e Cisl e Uil dall'altro, rappresenti solo la punta di un iceberg e comporti il concreto rischio di sottacere la dirompente realtà.

La (personale) sensazione è che - come mai prima di oggi - attraverso la (virulenta) difesa delle contrapposte posizioni, si riveli la sostanziale (e forse insanabile) diversa concezione del ruolo e dei compiti di un sindacato "moderno" e "al passo con i tempi".

Evidentemente, a distanza di alcuni anni, si tratta di prendere atto che i contrasti sorti tra Cgil Cisl e Uil all'epoca del (famoso e famigerato) Libro bianco di Maroni e acuitisi dopo il Patto per l'Italia del luglio 2002, per poi "deflagrare" nel febbraio successivo - dopo la pubblicazione della discussa legge-delega 30/03 - nascondevano problemi "di sistema", piuttosto che "di merito" sulle singole questioni.

E' allora evidente che se alla concezione di Epifani, secondo il quale, se è vero che in una certa fase del capitalismo si trasformano gli strumenti di produzione e le forze produttive, ma non finisce il rapporto di dipendenza del lavoro (salariato e non) dal capitale e non vengono meno le ragioni del conflitto - che, tra l'altro, rappresenta una delle fondamenta del sindacalismo confederale - si contrappone l'idea secondo la quale, in nome della c.d. "modernità", si ritiene, in primis, superata la dualità lavoro-capitale, la deriva è inevitabile.

Una deriva che - come già (profeticamente) denunciato da Cofferati, nel novembre 2001 - opera attraverso un vero e proprio snaturamento del ruolo e delle funzioni primarie del sindacato confederale, per approdare a quel sindacato "dei servizi" che tanti auspicano.

In questo quadro, con un governo che persevera nel tentativo di "isolamento" della maggiore tra le organizzazioni sindacali e di (sostanziale, oltre che formale) identificazione con gli interessi (di parte) delle imprese - fino a, platealmente, condividerne le piattaforme programmatiche e contrattuali - è oggettivamente arduo, per la Cgil, riuscire ad ottenere l'altrui disponibilità rispetto a un elementare principio (di antica evocazione): " Sui diritti non si tratta".

La realtà è che tutte le forze politiche attualmente presenti nel nostro Parlamento hanno, sostanzialmente, concordato - per scelta politica, per opportunismo elettorale o viltà - su principi secondo i quali il "libero mercato" e la "cultura del fare" rappresentavano i dogmi del "modernismo".

A questa scelta, sull'altare di un indimostrato teorema - secondo il quale siamo (ormai) di fronte ad un'irreversibile contrazione e definitivo declino del lavoro salariato, che marciano di pari passo con le "ragioni" e le "esigenze" dell'impresa - sono state sacrificate la "cultura del lavoro" e la sua "centralità".

In effetti, si tratta di prendere atto che l'evidente opera di "accreditamento al centro", svolta, in particolare, dal maggiore tra i partiti dell'ex centro-sinistra, ha prodotto una sostanziale perdita d'identità del fattore lavoro. A mio parere, si è trattato di una vera e propria involuzione storica che consente, oggi, di classificare "massimalisti" e "fuori della modernità" coloro i quali denunciano il vuoto di rappresentanza politica del lavoro e continuano a rivendicare le "ragioni" dei lavoratori.

In questo senso, non è casuale che da qualche tempo siano diventate centrali (e bipartisan) discussioni che ruotano intorno a concetti quali: "Il sistema del reintegro in caso di licenziamenti senza giusta causa è un freno alla crescita delle imprese" (di Dalemiana memoria), "Rinnovato clima di complicità tra capitale e lavoro", " Avviare un'alleanza tra impresa e lavoratori" (che hanno il loro massimo cultore nel ministro Sacconi) e via discorrendo; fino ad arrivare alla "giovane" Guidi, che si spinge a prospettare il "contratto individuale"!

Diventa, allora, indispensabile che il lavoro torni a rappresentare "la ragion d'essere" del movimento sindacale e di quello che resta della "sinistra" nel nostro paese; anche per agevolarne la rinascita. Si rende necessario, in estrema sintesi, un atto di svolta rispetto a quello che Guido Baglioni, ne "L'accerchiamento", definisce l'attuale fase di "ripiegamento" del ruolo del sindacato, fino al punto che la questione del lavoro salariato oggi " non è più considerata la questione sociale decisiva".

Certo, il compito si presenta molto arduo in un contesto nel quale il Segretario generale della Uil - per non essere da meno rispetto a quello della Cisl - considera "ottimo" l'operato del Ministro del lavoro (intervista a "La Repubblica", c.s.) e ritiene di giudicare semplicemente (e simpaticamente) "imprevedibile" l'opera del capo dell'Esecutivo.


  • stralcio di un articolo integralmente pubblicato sul sito: http://www.notiziesindacali.com alla pagina "Sindacato".


Napoli, 24/11/08


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