New York, al Metropolitan Museum ospite d’eccezione Gay Talese, giornalista e scrittore statunitense, illustra la famosa statua del “Pugilatore in riposo”, capolavoro d’arte esposto per la prima volta negli USA, grazie ad Eni, main sponsor dell’esposizione.
Mi chiamo Gay Talese. Questo è il pugile. Questa antica e magnifica statua “il pugile a riposo” è la rappresentazione della preoccupazione che l’uomo ha da tempo immemore della paura.
Da secoli prima della nascita di Cristo e fino a ieri stesso su qualche ring un pugile simile a questo si è confrontato con la paura.
Non c’è nulla di simile al pugilato tra tutti quei tentativi di confrontarsi con la paura di essere sconfitti e non solo ma di essere sconfitti davanti a un folto pubblico di spettatori. Per affrontare questa paura bisogna avere sia senso dell’umiltà che coraggio, in una misura superiore a quella posseduta anche dagli uomini più potenti.
Questa statua porta ancora sul viso i segni che l’artista gli inflisse in un’epoca che sembra precedere la nascita di Cristo ma si tratta di un’opera contemporanea. Questo è un uomo con il quale ho parlato io stesso nel corso della mia carriera di giornalista sportivo al servizio del New York Times – posso dirlo perché negli ultimi cinquant’anni ho parlato con tutti i pugili degni di questo nome.
Credo che quello che ho sentito dai pugili del mio tempo trova un riscontro nell’espressione di questa statua, rappresentazione dei lottatori del tempo antico.
Ricordo i tanti incontri a cui ho assistito dal bordo del ring e durante i quali i pugili cercavano di fare il loro meglio per sconfiggere il loro nemico al momento opportuno di fronte ad una grande folla. E se gli capitava di dover perdere subendo i colpi dolorosi che solo questo sport sa infliggere una volta rimasti soli i pugili dovevano anche dover fare i conti con la loro delusione e sconfitta. Io stesso sono stato negli spogliatoi dopo un match dove sul pavimento giacevano asciugamani e rivolgendomi al pugile attorniato dai suoi trainer chiedevo: Che cosa è successo? Che cosa è successo? Non hai visto che stava arrivando?
I pugili non cercavano di evadere le domande se lo facevano era perché si rendevano conto che alla fin fine non avrebbero dovuto confrontarsi pubblicamente con la sconfitta perché presto sarebbe arrivato per loro il momento dell’oblio. E così, quando vediamo un pugile dobbiamo pensare alla sua vulnerabilità la condizione umana con la quale possiamo identificarci perché tutti ci confrontiamo con il pericolo tutti moriremo un giorno e tutti noi ci troveremo un giorno di fronte al nostro round finale per questo tutti abbiamo il senso della “fine”.
Quindi quando facciamo domande a un pugile volendo sapere che cosa è successo è come chiedere a noi stessi, nel momento del giudizio: Che cosa è successo? Che cosa è successo?
E non lo sappiamo. È dunque il non sapere che ha il fascino simbolico di questa vita, fatta di concentrazione prima e di confronto poi ed, infine la realizzazione che la vita vissuta da ciascuno di noi sta per terminare svuotando la nostra dimensione spaziale. Spesso apprendiamo il concetto di tragedia da persone le cui esperienze non possiamo né vogliamo condividere. Nessuno vuole condividere la vita solitaria di chi a volte perde e a volte vince quella vita solitaria che un pugile rappresenta.
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