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venerdì 1 febbraio 2013

IL GIOCO DELL'AMORE E DEL CASO al Manzoni di Milano - recensione


Torna il teatro, finalmente, o forse è un timido segnale, un'eccezione, dopo anni di rappresentazioni sempre più involute, monologhi, letture, conferenze, prove aperte, ecco di nuovo uno spettacolo vero, con dei costumi, delle scenografie, la scelta di un testo di grande successo ai suoi tempi e fondamentale nella storia della drammaturgia per i motivi che andiamo ora a scoprire. 

1729-1730: La Commedia Italiana si era stabilita in Francia con grande riscontro e aveva permeato di sè la Commedia Francese, ma non viceversa.
Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux , per tutti Marivaux (1688 – 1763) autore di salotto e di corte, profondamente francese e nobiliare, il Tom Wolfe del '700, tenta con successo una "fusione" come si direbbe oggi, e come si usa fare ai nostri giorni nei fumetti e nei telefilm: unire in un solo testo tematiche e personaggi della Comèdie Francaise alla Comèdie Italienne, esperimento audace che in una penna meno dotata, e meno controllata, avrebbe prodotto qualche sciocchezza. 

 La struttura geometrica e cartesiana di Marivaux mette in campo 4+2 personaggi, Il Nobile e il suo servo (nel testo originale era Arlecchino, mentre qui si è deciso di non dargli identità, anche se ll suo interprete si diverte a dargli delle spruzzate di Pulcinella) La Nobildonna e la sua serva, il Padre e il Fratello come figure esterne, il Fratello sopratutto, commentatori, osservatori, spettatori in scena.  ll plot è a sua volte antico, plautino: promessi sposi senza conoscersi,  due giovani rampolli nobiliari decidono di scambiarsi con i rispettivi servants, per curiosare sull'identità e sul carattere. Non è un giallo con finale a sorpresa, ca va sans dire che le due coppie si innamoreranno e infine si sposeranno, sotto lo sguardo divertito del padre, già al corrente di tutto dall'inizio, e quindi Padre-Spettatore, e del Fratello, qui caratterizzato volutamente con modi altezzosi e antipatici, ma perché è il Fratello-Critico, che recensisce e discute sia gli altri personaggi che la trama stessa.  Emerge ancora una volta il classismo di Marivaux e del pubblico al quale egli si rivolgeva, a differenza del suo predecessore e maestro Molière per egli il mondo è diviso in caste ben definite, e ognuno è attratto dai suoi simili, riconosce, a dispetto dei vestiti, dal portamento, dall'uso del linguaggio, un francese troppo coltivato e ricco che rivela tempo dedicato alle letture, insolito in un giovanotto che si suppone essere uomo di fatica e di manualità. Allo stesso modo, i due servi si riconoscono, come anime dopo le vite precedenti, nella rozzezza dei toni e dei modi. "Servo" e "Padrone" devono rimanere, nella mentalità, discutibile aggiungo, di Marivaux e degli spettatori suoi contemporanei, al loro posto, devono accoppiarsi tra loro, non devono trascendere, e queste tematiche sono ancora più esasperate in altri testi, quali L'isola degli schiavi e Le false confidenze. 

La crisi colpisce ovunque, nelle fabbriche come nelle produzioni teatrali, i tempi delle scenografie che riproducevano nei dettagli interi ambienti, delle venti persone in scena ecc... sono passati, e anche in un Tannahuser visto alcuni anni fa all'Opera di Roma c'erano giochi di luce invece delle scenografie. In questo caso, il regista ha saputo fare di necessità virtù, ha creato degli effetti trompe l'oeil, molto francesi e molto Versailles diciamo, quindi affatto fuori luogo, ci sono solo quattro sedie in scena, come la doppia coppia di personaggi (però sono sopratutto i 2 osservatori esterni, il Padre-Spettatore e il Fratello-Critico che vi si siedono sopra) , due porte-quinta, invece del fondale uno splendido gioco di immagini e di luci a rappresentare le varie fasi della giornata.  I sei attori, aiutati dagli splendidi costumi, molto cinematografici, di Gabriella Pescucci (Oscar per L'ultimo Imperatore) sui quali vengono inseriti dei jeans, delle scarpe moderne,  sono ispirati e affiatati, si divertono e fanno divertire il pubblico, lo spettacolo non decolla subito, ma non per demerito della regia che anzi ha un perfetto ritmo e precisione, si tratta proprio del  testo, così freddo e geometrico, che prima espone lungamente l'assioma e poi lo verifica, una sorte di motore diesel che fatica a scaldarsi ma poi cattura sempre più, fino ai calorosi applausi finali. 

E' tornato il teatro come dovrebbe essere, che bello, spero che questo delizioso spettacolo non sia stato come quei giorni di finta primavera che ci avevano ingannato la settimana scorsa.    
                                                                                                                                (Andrea Daz)


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