Conosco
l’India e gli indiani. Ci ho lavorato a lungo, importando prodotti ayurvedici.
Ho un ricordo indelebile del mio primo incontro con l’imprenditore locale con cui
stipulai una partnership che è durata dodici anni. Il negoziato sembrava una partita a scacchi e non potei fare a
meno di notare la curiosa abitudine di quel popolo, che per dire di sì scuote
la testa esattamente come quando noi vogliamo dire di no. Mi venne da pensare
che per i devoti della Trimurti gli accordi siano sempre con riserva, che è normale
per loro rimangiarsi la parola o giocare sui malintesi pur di fregare il prossimo.
Temporeggiavo e il venditore mi chiese perché non accettassi le sue condizioni,
che definì eccellenti. Risposi col sorriso sulle labbra ma senza peli sulla
lingua: “Perché voi fate gli indiani, siete bravi a imbrogliare la gente”.
Quello che sarebbe diventato il mio fornitore replicò: “Mi hanno messo in
guardia che voi fate gli italiani, cioè i furbi”.
Questo aneddoto potrebbe
illustrare la pochade dei marò
italiani, prima attirati con l’inganno in un porto del Kerala, poi accusati
dell’omicidio di due pescatori avvenuto in acque internazionali, sequestrati
dalle autorità indiane e finalmente liberi in Italia, per cui il governo
indiano minaccia ritorsioni politiche ed economiche se non riconsegneremo loro
le vittime sacrificali, destinate all’altare della dea Kalì. Voglio subito
chiarire il mio punto di vista sulla faccenda, che è una pantomima all’insegna
dell’inganno, della strumentalizzazione e delle figure barbine. Va da sé che i
marò sono vittime di un sopruso inaccettabile, la loro odissea è vergognosa. Ma
è altrettanto vero che il nostro governo si è mostrato debole, pusillanime,
vigliacco. Qualunque altra nazione con un minimo d’orgoglio avrebbe risolto il
caso da tempo. Anzi, non ci sarebbe stato nessun caso. Ve lo immaginate il
comandante di una nave americana, cinese, britannica, francese o anche turca su
cui sono imbarcati dei militari di guardia che cade nel trabocchetto di entrare
nelle acque territoriali indiane, attracca in un porto del Kerala e consegna
alle autorità locali due dei suoi? Fantascienza. Noi l’abbiamo fatto. Siamo stati
ingannati, è stato scritto. Allora non siamo furbi, siamo solo dei polli. La
decisione di non rimandare in India i marò perché siano processati dalla Corte Suprema
indiana – una legittima soluzione che però va a scapito dell’onore – riabilita
in parte i cacasenno del nostro ministero degli Esteri. Dovevamo reagire molto prima,
con fermezza. Così diamo l’impressione di esserci rimangiati la parola, di
avere agito con “perfidia” come hanno scritto i media indiani. Facciamo fare ai
bari la figura degli onesti. È ridicolo che l’accusa di scorrettezza parta da
un popolo la cui natura è trattare e ritrattare continuamente e in modo
snervante. Meno male che abbiamo avuto un rigurgito di orgoglio, ci siamo
ribellati al ludibrio pubblico e politico cui ci hanno sottoposto i
rappresentanti di una nazione il cui sistema politico-giudiziario è persino più
caotico, corrotto e arrogante del nostro.
Adesso l’India si sente offesa e
gonfia il petto puntandoci il dito addosso con fare minaccioso. Mamma mia, che
paura! Ci aizzeranno contro gli elefanti o le tigri del Bengala? Oppure
lanceranno su di noi i missili puntati sul Pakistan? Forse ci hanno preso per
lo Sri Lanka o il Bangladesh e pensano di spaventarci. Forse confidano nel
fatto che sono tantissimi (1.2 miliardi di persone) e più arroganti,
prepotenti, nazionalisti e incivili di noi. Personalmente, forte della mia
esperienza indiana, non mi stupisco della piega presa dagli eventi. Loro sanno
di essere un Paese emergente, una potenza mondiale, e applicano il principio: a
ragione o a torto, è la mia patria. Hanno torto, è chiaro, ma devono mostrare i
muscoli per ragioni geopolitiche. Si rivolgono come bulli a Roma affinché
Islamabad e Pechino intendano. La questione rischia di trasformarsi in una
prova di forza. Che fare? Dobbiamo spernacchiarli. L’India è il Paese dei falsi
guru ed è normale che il governo indiano voglia gettare fumo negli occhi del
mondo. Fanno i prepotenti con noi perché hanno paura. “L’assenza di paura non
significa arroganza o aggressività. Quest’ultima è in se stessa un segno di
paura” ha lasciato scritto Gandhi. Se così non fosse, il caso dei marò si
sarebbe già risolto diplomaticamente. Al governo di Delhi, che lascia morire
ogni giorno diverse migliaia di indiani per fame, sete e malattie, non gliene
importa nulla dei due pescatori uccisi. Gli importa mostrare al resto del mondo
che l’India ha il diritto di entrare nel club esclusivo degli stati
imperialisti. Hanno paura di restarne fuori. Che dovremmo fare? – ripeto. È
semplice, mantenerci fermi sulle nostre posizioni, affidarci a un arbitrato
internazionale e rispondere per le rime qualora i cinici gradassi che governano
l’India come se fossimo ancora al tempo dei Moghul decidessero di espellere il
nostro ambasciatore e minassero le relazioni commerciali.
A proposito, cosa
rischiamo se il business con l’India
si sgonfia? Numeri alla mano (e qui rendo merito all’India di avere inventato
l’ingegnoso metodo di esprimere i numeri per mezzo di 10 simboli) c’è da
chiarire prima di tutto che l’Italia è all’ottavo posto mondiale nella
classifica del Pil nazionale, mentre l’India è al decimo. Dunque ci portino
rispetto. Poi, nel biennio 2011-12, noi abbiamo importato dall’India beni per
4.883,09 milioni di dollari e abbiamo esportato beni per 5.427,17 milioni di
dollari. Il saldo commerciale con l’India è positivo. Pur tuttavia, nel 2012, a
seguito delle tensioni fra i due Paesi, il calo dei rapporti commerciali è
stato sensibile: le esportazioni di merci italiane in India è calata del 10,3%
e le importazioni dall’India sono crollate del 21,5%. Se, per assurdo, l’India
decidesse di non comprare più i nostri macchinari, aerei, elicotteri, prodotti
chimici, autoveicoli, tubi e altri prodotti in metallo, capi di moda, armi, apparecchi
elettrici e mobili, ci danneggerebbe più di quanto non riusciremmo a fare noi se
non acquistassimo più i manufatti indiani, cioè tessuti (seta e cotone),
prodotti di artigianato, articoli etnici, zucchero, gioielli, pietre e frutta esotica.
Ma non sarebbe un danno così grave da farci pentire di avere agito dignitosamente,
per quanto le 400 aziende italiane che operano in India (fra cui Eni, Fiat,
Piaggio, Merloni, Pirelli, Italcementi, Luxottica) la pensino diversamente. Per
ripicca, potremmo toglierci la soddisfazione di rispedire a casa i lavoratori
indiani clandestini e sottoporre a verifica fiscale i ristoranti indiani, i
centri yoga e gli ashram di matrice induista che sono sorti nel nostro Paese
come funghi dopo la pioggia. Nulla di personale contro i seguaci di Sai Baba e
gli Hare Krishna, sia chiaro. Inoltre, potremmo vietare i viaggi turistici in
India. I circa 200.000 italiani che ci sono stati nel 2012 potrebbero andare in
un Paese meno muscoloso. La guerre c’est
la guerre! Ovviamente è meglio evitarla questa guerra stupida e inutile. E
poiché conosco bene gli indiani, sono portato a credere che se manterremo ferme
le nostre posizioni, il governo di Delhi inventerà un excamotage per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal
caso dei marò. In India, dove i poveri non si contano, vivono anche moltissime
persone ricche. È improbabile che i nuovi maharaja rinuncino ai beni di lusso
italiani, su tutti la Ferrari e Armani, per una questione di sciocco orgoglio
nazionale.
Quindi? È solo questione di tempo. Nel frattempo, prepariamoci a
vivere momenti esilaranti e insieme di alta tensione. L’India dei falsi guru e
dei gradassi strillerà come una cornacchia ferita pur di compiacere il partito
nazionalista (BJP) e i fondamentalisti hindu. E noi? Auguriamoci che il nuovo
governo italiano (quando finalmente sarà insediato e operativo) non faccia il
voltagabbana, rinnegando la giusta, attuale presa di posizione del ministero
degli Esteri. Tutto ha un prezzo, comunque. Nella peggiore delle ipotesi ci
toccherà fare un piccolo sforzo economico. Si dice che l’India abbia
trecentotrenta milioni di dei. Non è vero, ne ha almeno uno in più ed è potente:
il denaro.
www.giuseppebresciani.com
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