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martedì 11 giugno 2013

Flavio Cattaneo: Intervista al numero uno della rete elettrica su La Stampa

Flavio Cattaneo racconta a La Stampa come Terna, la società che gestisce la rete elettrica italiana, abbia battuto la crisi. Sotto la dirigenza di Cattaneo, AD Terna dal 2005, il valore dell’azienda è cresciuto del 70% e il rendimento complessivo per gli azionisti di oltre il 240%. L’azienda ha distribuito 2,5 miliardi di euro di dividendi e ha investito 6,5 miliardi per rendere la rete elettrica nazionale efficiente e più stabile. Flavio Cattaneo: “I numeri sono il risultato di un processo che richiede un duro lavoro. Noi a Terna abbiamo semplicemente applicato il sano modello della media impresa italiana, che è quello dell’impresa ben gestita”.

Flavio Cattaneo, 50 anni ancora da compiere, dal 2005 è amministratore delegato di Terna, la società che gestisce la rete di trasmissione elettrica italiana. I numeri sono dalla sua: il valore dell’azienda è cresciuto da allora del 70% e il rendimento complessivo per gli azionisti (TSR) di oltre il 240%. Ha distribuito 2,5 miliardi di euro di dividendi, l’azionariato è vasto e diffuso e soprattutto ha investito 6,5 miliardi per rendere la rete elettrica nazionale efficiente e più stabile.

Cattaneo, Terna è una delle poche cose che vanno bene in un Paese che sembra avviluppato in una crisi drammatica. Qual è il problema dell’Italia, dal suo osservatorio?
«In Italia il buono c’è ed è “diffuso”, ma non esce in superficie. Lo troviamo nella piccola e media impresa, nella gente che lavora tutti i giorni, nel buonsenso delle persone. Ma se noi italiani presi individualmente siamo bravissimi, quando dobbiamo lavorare insieme allarghiamo le braccia, ed è come se dicessimo “non si può fare”».

È una specie di carattere nazionale.
«C’è un vero problema culturale, questo è indubbio. C’è chi fa grandi proclami in cui annuncia che bisogna rifare tutto, ma alla fine non si rifà mai niente; c’è una moltitudine di interessi in competizione fra loro. Tanti, troppi, “tengono famiglia”. Quando l’Italia è entrata nell’euro sembrava che ci si fosse incamminati verso una visione moderna, ma poi ci siamo cacciati in una situazione che ricorda tanto la definizione che dava Carlo Maria Cipolla della stupidità: “compiere azioni senza trarne alcun vantaggio”. Inteso ovviamente come vantaggio collettivo, perché nel trarre vantaggi personali gli italiani sono maestri».

Un problema culturale che si traduce in numeri, in economia. Nel nostro caso quasi sempre numeri negativi per il Pil, gli investimenti, il lavoro, i consumi. Ce la caveremo?
«Tutti i “meno” dell’Italia sono frutto di quello che abbiamo detto finora. Per farli diventare dei “più” bisogna invertire quel modo di pensare e di agire. Facciamo degli esempi: perché i turisti cinesi, che pure preferiscono Roma a Parigi, sbarcano a Parigi? Gli aeroporti italiani come sono? E i collegamenti con le città? È vero o no che anche un cinese molto ricco rischia di essere bloccato, quale extra comunitario, dalle leggi sull’immigrazione clandestina? Se non c’è gente di buonsenso che produce regole ragionevoli e applicabili, i “più” non li avremo mai. Tutti, qualunque ruolo ricoprano, devono poter dimostrare di aver fatto bene. E se anche messi nella condizione non lo dimostrano, allora è un dovere cambiarli. Nessuno può pensare di essere inamovibile, a nessun livello».

Che ne pensa delle politiche di austerità? C’è chi pensa che strangolino l’economia e aggravino la recessione…
«Mio padre, piccolo artigiano, diceva al suo ragioniere: “lei vuole che io fallisca, ma con i conti in ordine?” I risultati delle aziende, i “numeri”, sono il risultato di un processo. Le politiche di austerità pongono l’attenzione soltanto sui numeri finali e uccidono il processo, con risultati non certo lusinghieri. In Italia siamo stati portati a non consumare: in questo modo la domanda interna cala, calano le entrate e si devono aumentare le tasse. E così si va a fondo. Detto questo, la spesa pubblica non può essere dissipata, ma la giusta oculatezza non può essere utilizzata in maniera sconsiderata se no il risultato è un “meno”».

E avendo un pacchetto di miliardi da spendere, cosa farebbe per far ripartire il Paese?
«Primo: ridurre le tasse per chi investe e chi assume. Secondo: chi lascia i soldi in Italia deve essere trattato meglio di chi li porta all’estero. Terzo: chi fa deve essere trattato meglio di chi non fa. Quarto: il reddito creato con il lavoro deve essere agevolato a livello fiscale. Poi, una politica di gestione dell’immigrazione per favorire l’arrivo di gente perbene e con le caratteristiche che occorrono per riattivare l’economia, così come è stato fatto negli Stati Uniti. Infine, una politica di investimento nell’innovazione e nella ricerca e norme, anche europee, per agevolare gli investimenti a lungo termine».

Ci parli della sua esperienza a Terna.
«Abbiamo iniziato otto anni fa. Oggi siamo la prima società per presenza di fondi stranieri; quando Terna emette un bond, anche di grande entità, il book viene chiuso in mezz’ora. Abbiamo un costo del debito basso e a lunga scadenza. Abbiamo assunto mille persone, facendo turnover. I nostri operai sono tra quelli meglio remunerati d’Italia, perché un’azienda deve saper diffondere il benessere, quando c’è, a tutti i livelli. Ripeto: i numeri sono il risultato di un processo che richiede un duro lavoro. Noi a Terna abbiamo semplicemente applicato il sano modello della media impresa italiana, che poi è quello dell’impresa ben gestita».

E alla Rai, dove lei è stato direttore generale dal 2003 al 2005, cosa non ha funzionato?
«Intanto prendiamo i bilanci di quella gestione, quelli precedenti e quelli successivi. Quando sono uscito, la Rai aveva 400 milioni di posizione finanziaria netta attiva e 180 milioni di utile netto. Sono entrato con un autista e un’impiegata e con loro sono uscito. Mi lasci dire che è stata un’esperienza difficile, ed entusiasmante. È lì che mi sono venuti i primi capelli bianchi. Sul presente non spetta a me dare giudizi, ma è un’azienda che ha tante potenzialità, specie nel prodotto. A volte inutilizzate».

La lottizzazione politica fa parte o no di quel “problema culturale” di cui parlava? Come si potrebbe cambiare il sistema?
«La lottizzazione delle nomine pubbliche la critichiamo tutti, non tanto perché le nomine sono decise dai politici, ma perché poi chi è stato nominato quasi mai porta buoni risultati e finisce che le cose vanno male. Il politico che nomina una persona brava merita gli applausi; quello che ne nomina una non brava ma “fedele” che fa andare male le cose merita i fischi. Anche perché questo significa che quel politico, anche quando dovrà prendere altre decisioni, farà prevalere gli interessi personali. Occorre stabilire dei criteri oggettivi, sia per le nomine che per la durata dei mandati: ’’cambiare il sangue’’ e premiare i meritevoli fa bene, sia nel pubblico che nel privato. Le prime dichiarazioni del Governo in tal senso lasciano ben sperare».

Nelle stagioni delle nomine pubbliche lei è sempre citato per questa o quella poltrona. Le piacerebbe cambiare?
«Ho ancora un anno di mandato qui a Terna: finché lavoro in un’azienda penso solo a quella».


FONTE: La Stampa

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