“Detestava i luoghi comuni, il pensiero fatto di
stereotipe, d’ideologie, di falso cameratismo. Lui amava la dialettica, gli
piaceva il confronto, persino il conflitto; ricercava le idee come risultato di
uno scambio, non pretendeva l’originalità a tutti i costi, richiedeva, però,
l’autenticità. “Sartraniamente” parlando, cercava l'essenzialità come derivato
dall’esperienza.” – Ernesto Venturini
Un ritratto inedito dello psichiatra, neurologo e docente
italiano Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto
1980) conosciuto, soprattutto, per la Legge 180 del 1978, da cui per l’appunto
prende il nome. A raccontarci di questo grande innovatore nel campo della
salute mentale un altro altrettanto grande: il medico psichiatra Ernesto
Venturini.
L’occasione è la prossima uscita del nuovo libro di
Venturini, “Il sale e gli alberi – La linea curva della
deistituzionalizzazione”, disponibile in libreria da settembre 2020 e
pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore.
“Il sale e gli alberi” è un saggio sul processo di
liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo
con particolare attenzione per la lotta al manicomio e la
deistituzionalizzazione; con postfazione della studiosa, storica, scrittrice e
coordinatrice del Centro di servizi per il volontariato bolognese Cinzia
Migani, dello psicologo del Dipartimento di salute mentale di Imola Ennio
Sergio; del giornalista Valerio Zanotti; e dall’attuale
rappresentante della Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale
Emilia-Romagna Valter Galavotti.
Ernesto Venturini, dopo aver conseguito la laurea in
psichiatria a Roma, conobbe Franco Basaglia ed iniziò una durevole collaborazione
ed amicizia. Nel 1979 per Einaudi ha curato una lunga intervista-riflessione
con Basaglia sull’allora recente Legge 180 pubblicata in “Il giardino dei
gelsi”. Ha concorso alla chiusura dell’ospedale psichiatrico di Imola e ha
condotto una significativa esperienza sulla salute mentale in vita comunitaria.
Nel 2010, per Franco Angeli Edizioni pubblica “Il folle
reato. Il rapporto tra la responsabilità dello psichiatra e la imputabilità del
paziente”, un saggio redatto con Domenico Casagrande e Lorenzo Toresini, un
volume che prende spunto da uno scritto di Franco Basaglia e la moglie, la
psichiatra Franca Ongaro, “Il problema dell’incidente”, che mette a
confronto le sentenze e le perizie di alcuni casi delittuosi nei quali il
medico è stato imputato di omicidio colposo per il crimine commesso dal proprio
paziente.
Inoltre, l’autore in qualità di esperto
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha accompagnato il processo di
riforma psichiatrica in Brasile dal 1991 al 2006, riportando i processi
ed i risultati dell’esperienza italiana.
A.M.: Ernesto, sono lusingata di poter dialogare
con lei quale esponente di una grande riforma sociale che ha portato la società
a comportarsi in modo più “civile” e al contempo più “sociale”. Il suo
curriculum presenta una vita di importanti amicizie e collaborazioni. Potendo
permettermi un salto nel passato, la mia prima domanda riguarda l’incontro che
portò al sodalizio con lo psichiatra Franco Basaglia.
Ernesto Venturini: Incontrai personalmente Franco in casa
di Michele Risso, a Roma. Eravamo, mi pare, alla fine del 1967 o all’inizio del
1968. Mi ero da poco laureato in medicina all’Università Cattolica ed ero il
responsabile anziano di un gruppo di medici e studenti che frequentavano il
reparto psichiatrico dell’università. Michele era uno psicanalista junghiano,
che, lavorando in Svizzera, aveva realizzato degli studi pionieri in
etnopsichiatria. Periodicamente ci invitava nella sua casa per incontrare i
suoi amici – personaggi famosi della cultura e della scienza. Quel giorno
avremmo incontrato il suo amico Franco Basaglia. E Basaglia era già un mito. In
quegli anni noi volevamo conoscere tutto quanto stava accadendo nel mondo in
campo psichiatrico: ci raccontavamo quanto stava accadendo in Francia, in
Canada, in Inghilterra. Eravamo stati a Perugia e a Città di Castello per
incontrare Carlo Manuali, che promuoveva un interessante coinvolgimento
comunitario sulla salute mentale, ma le notizie che venivano da Gorizia erano
quelle che più ci affascinavano: lì si stava realizzando una rivoluzione, un vero
cambio di paradigma scientifico.
L’incontro, in casa di Michele, aveva un tono del tutto
informale, quasi amichevole. Ero rimasto subito colpito dalla quantità di tic
con cui Basaglia accompagnava il suo parlare: muoveva lateralmente il capo,
inarcava le sopracciglia, aggrottava le labbra. Ma, dopo un po’, non ci facevi
più caso, perché eri conquistato dai suoi occhi chiari, dal suo sorriso, dall’eleganza
del suo portamento (era alto), dal suo parlare torrenziale. Era estroverso,
comunicativo, fumava molto. L’esatto contrario di Michele, che sembrava un
gentleman inglese, tutto misurato e silenzioso. A un certo punto ho capito che
Franco ci stava valutando. Come avrei capito più tardi, quello era il suo modo abituale
di essere: voleva capire con chi aveva a che fare. Detestava i luoghi comuni,
il pensiero fatto di stereotipe, d’ideologie, di falso cameratismo. Lui amava
la dialettica, gli piaceva il confronto, persino il conflitto; ricercava le
idee come risultato di uno scambio, non pretendeva l’originalità a tutti i
costi, richiedeva, però, l’autenticità. “Sartraniamente” parlando, cercava l'essenzialità
come derivato dall’esperienza. E così, più o meno consapevolmente, ti metteva alla
prova: ti rimandava la domanda che tu gli avevi posto, chiedendoti di
riformularla, quasi facendoti capire che, in realtà, tu avevi già la risposta
dentro di te (era fenomenologo e socratico, contemporaneamente). Senza dubbio
“il filosofo” Basaglia” (come sprezzantemente lo aveva definito Belloni, il suo
direttore universitario) amava leggere, e molto anche, ma era nell’incontro con
l’altro che provava il piacere intellettuale della conoscenza. E d’altra parte
non erano forse le assemblee generali di Gorizia il luogo dell’ascolto, della
costruzione collettiva del sapere, del raggiungimento di un potere attraverso
il dialogo, il confronto? Se, poi alla fine, Franco restava deluso dall’incontro,
allora il suo sguardo si faceva annoiato. Rimaneva sempre gentile, formalmente gentile
ma distratto, disattento.
A distanza di tanti anni ricordo vagamente i contenuti
del nostro colloquio quel giorno. Ero tutto preso dalla forte emozione di
quell’incontro. E, solo quando ci stavamo salutando, ho capito che avevo
superato la prova. Franco si era rivolto a me, e, guardandomi con complicità, aveva
concluso: “Fai una cosa: vieni a Gorizia. Tu stesso potrai renderti conto di
quello che sta succedendo”.
In quei fatidici giorni del ‘68, avevo cominciato a
portare con me il libro “L’istituzione Negata”. Nel corso delle assemblee,
durante le occupazioni nel Pronto Soccorso psichiatrico del Policlinico, tiravo
fuori quel libretto (accompagnato da quell’altro – il libretto rosso di Mao) e
leggevo, a voce alta, brani di quella nostra bibbia. Poi, per alcuni anni,
avevo deciso di fare le mie vacanze estive andando a fare il volontario
a Gorizia. Un mondo nuovo, seducente, si apriva dinanzi a me, così
profondamente diverso dai rituali, dalla pomposa retorica dell’università. E
finalmente era venuto il momento della scelta. Il direttore del reparto universitario
– una brava persona – mi aveva prospettato la sicurezza di una carriera
universitaria, se fossi rimasto: essendo uno tra i primi laureati di quella
facoltà, ero, automaticamente, uno dei designati… Ma un giorno mi sono
messo sulla mia ‘500, insieme alla moglie e alla mia piccola, di poco più di un
anno, e ho lasciato quella città meravigliosa. Mi sono messo in cammino verso
una piccola città di confine, in un momento critico per l’esperienza basagliana
messa in crisi dall’uxoricidio di un paziente.
Sapevo quello che stavo perdendo, non sapevo quello che
sarebbe accaduto… ma – alea iacta est – io, ormai, ero un “goriziano”.
A.M.: La citazione iniziale de “Il sale e gli
alberi” è dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer ed è associata all’emozione
che prova ogni volta che pensa al “processo
di liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo”. Qual è, invece, il significato del titolo
del libro?
Ernesto Venturini: Il libro ha un titolo “Il Sale e gli
alberi” e un sottotitolo “La linea curva della deistituzionalizzazione”. Parlerò,
per prima cosa del sottotitolo che utilizza un’affascinante citazione di Oscar
Niemeyer, il famoso architetto costruttore di Brasilia.
Ho costruito, per l’appunto, una metafora – la linea
curva della deistituzionalizzazione – per spiegare che cosa significhi per me
questa parola, che sembra una specie di scioglilingua. Deistituzionalizzazione
non indica la semplice umanizzazione di un luogo violento – il manicomio –, non
rappresenta la deospedalizzazione con il trasferimento dei ricoverati in
strutture più idonee, non è la modernizzazione delle cure psichiatriche e non è
nemmeno – attenzione! – la promulgazione di una legge di riforma. Senza dubbio
“la riforma 180” è (è stata) un passaggio importante per migliorare le
politiche di sanità mentale. Avere sancito la fine degli ospedali psichiatrici
e anche di quelli giudiziari è stato un evento storico: ha riconosciuto ai
folli quei diritti civili, affermati con la Rivoluzione francese e con la Carta
dei diritti dell’uomo, ma negati ai folli, per duecento anni, attraverso leggi
speciali – le leggi di garanzia per
gli incapaci. In questo senso la riforma, come giustamente ha fatto osservare
Norberto Bobbio, è una delle poche, vere riforme avvenuta in Italia e nel mondo
negli ultimi decenni, perché ha riconosciuto la pienezza dei diritti anche a
chi sembrava non potesse esercitarli – la persona folle.
Ma per noi basagliani la deistituzionalizzazione
significa qualcosa di più: è un complesso processo scientifico, politico,
filosofico, in un perenne “divenire”, che dà senso della vita, quella
individuale e quella collettiva, attraverso la libertà e la responsabilità.
Niemeyer, riprendendo ed elaborando una frase di Cézanne,
dice di amare nel suo lavoro di architetto le linee curve, che gli ricordano le
montagne del suo paese, le sinuosità delle donne brasiliane. In modo analogo io
penso che la libertà delle persone dalla malattia sia un percorso non facile,
che significhi, per il paziente e per il terapeuta, affrontare l’incertezza di
un orizzonte nascosto da linee curve. È però anche un cammino morbido, dolce,
che si apre all’inatteso. Direi (senza alcuna piaggeria) che è un processo al
femminile, perché si oppone alla rigidità, fallica e autoritaria dello sguardo
dello psichiatra tradizionale; eccepisce il suo potere-sapere, che oggettiva e,
di fatto, finisce per reprimere e per racchiudere in uno stigma il disagio
psichico della persona. Nel libro cerco di sviluppare questo tema, e lo faccio ricorrendo,
però, alla descrizione di un’esperienza, concreta ed esaltante, che ha
testimoniato in modo emblematico questo processo: l’attivo coinvolgimento di
una comunità – quello della città di Imola – nel definitivo superamento dei
suoi due ospedali, tra i più antichi e grandi d’Italia.
… Quanto, poi, alla spiegazione del titolo – Il Sale e
gli Alberi –, secondo un’abituale linea di editing, non dirò nulla, per incentivare
un minimo di suspense e per lasciare alla lettura del libro la risposta a
questo interrogativo.
A.M.: Nel 1967 lo psichiatra sudafricano David
Cooper utilizzò per primo il termine “antipsichiatria” che divenne presto un
movimento eterogeneo che avversava la psichiatria vigente. Lo psichiatra
scozzese Ronald Laing, celebre per alcuni suoi studi sulla psicosi che andavano
contro l’ortodossia della psichiatria del tempo, rifiutò l’etichetta di
antipsichiatrico; ma lo psichiatra ungherese Thomas Szasz fu vicino alle
convinzioni dell’antipsichiatria e sostenne la lotta all’istituto del manicomio
e all’ospedalizzazione. Nell’introduzione lei scrive: “La deistituzionalizzazione finisce,
erroneamente, per essere spesso equiparata all’antipsichiatria e diventa
sinonimo del desiderio di abolire ogni istituzione di controllo sociale.” Che cos’è dunque il movimento
dell’antipsichiatria?
Ernesto Venturini: Premetto che negli anni ‘60-‘70 la
lettura dei libri di Michel Foucault (“Storia della follia nell’età classica”),
di David Cooper (“La morte della famiglia”, “Psichiatria e antipsichiatria”),
di Thomas Szasz (“Il mito della malattia mentale”) e, soprattutto, di Ronald Laing
(“L’io diviso”, “La politica della famiglia”) costituivano per me un autentico
godimento. Avevano il potere della rivelazione, mi aiutavano a penetrare nel
mondo affascinante della psicosi, a capirne non solo le ragioni, ma anche a
interrogarmi sulla nostra presunta “normalità”. In qualche modo, in quegli
anni, ci sentivamo tutti degli anti-psichiatri, anche se era chiaro
quello che rifiutavamo – la brutalità del manicomio (ma anche l’abuso degli
psicofarmaci, l’oggettivazione dei pazienti), ma non altrettanto quella che
avrebbe dovuto essere la risposta concreta ai bisogni di una situazione che
avevamo difficoltà a definire “malattia mentale”. Laing, in ogni caso, si
allontanò dal suo amico Cooper perché non condivideva le sue conclusioni più
estreme e continuò a definirsi uno psichiatra. Cooper, dopo l’exploit teorico
pratico della sua giovinezza, rimase imprigionato nel suo ruolo d’icona,
andando incontro a un rapido declino intellettuale ed esistenziale. Michel
Foucault rese, senza dubbio, più complesse e dialettiche le sue iniziali
riflessioni contro la disciplina psichiatrica. Szasz, divenuto ormai cittadino
americano, continuò a parlare contro i manicomi pubblici, ma meno verso quelli
privati; diventò un convinto fautore del liberismo, anche in campo sanitario,
entrò nel mondo paludato dell’Accademia, fu sostenitore di Scientology, una
discutibile setta mistica-religiosa.
In ogni caso, non è stata tanto la storia personale di
questi protagonisti dell’antipsichiatria, ciò che ha aiutato me (e naturalmente
tanti altri) a prendere le distanze da questo importante movimento di denuncia,
quanto la verifica della sua pratica velleitaria e di quella sorta di desiderio
di una perenne rottura, piuttosto che di una difficile ricerca di consenso.
Questo è avvenuto quando, basaglianamente parlando, siamo andati a
verificare le pratiche e i loro effetti. Le esperienze antipsichiatriche –
anche quella famosa di Kingsley Hall (1965) a Londra – avvenivano in ambienti
privati, dove la popolazione era selezionata dal censo, dall’età (giovani),
dalla cultura. Erano esperienze di nicchia, esemplari, ma con il respiro corto,
senza una visione politica delle contraddizioni sociali.
Altro è stato, invece, lo spessore etico e scientifico di
Franco Basaglia che ha lasciato l’università, con i suoi privilegi e rituali,
per scegliere di lavorare nel buco nero del manicomio, dove erano “gestite” la
povertà, le disuguaglianze di classe, le differenze sociali e quelle di genere.
Per cogliere meglio la distanza tra i due movimenti,
basterà affidarci, una volta tanto, alla terminologia. Basaglia e noi con lui
non ci siamo mai dichiarati anti-psichiatri. Basaglia ha sempre parlato della negazione
dell’istituzione. Il nostro è, infatti, un movimento teorico-pratico contro
l’istituzionalizzazione (non
contro le istituzioni), contro, cioè, quell’uso delle istituzioni che sancisce
la disuguaglianza, l’uso di un potere-sapere per assoggettare l’uomo.
L’istituzionalizzazione è un meccanismo generalizzato che accade nelle diverse istituzioni
della società: in quelle dell’educazione scolastica, nella famiglia, nei partiti,
nei gruppi sociali, nelle discipline scientifiche. Il manicomio rappresenta
dunque solo una delle tante istituzionalizzazioni. Il suo opposto – la deistituzionalizzazione –
è, pertanto, una lotta per libertà: “la libertà è terapeutica!” È lotta contro disciplina (nell’ottica di Foucault), è decostruzione (nell’ottica
strutturalista di Jacques Derrida) di tutti quegli apparati di sapere-potere,
che sostengono l’esclusione, l’emarginazione.
L’organizzazione del movimento teorico-pratico di
Basaglia (una nuova istituzione!) non si chiama Antipsichiatria ma “Psichiatria
Democratica”: è l’affermazione del valore della democrazia, intesa come diritto
di protagonismo e di cittadinanza del soggetto, dentro lo specifico ambito
della salute mentale. Siamo di fronte a un processo, che vuole svelare le
manipolazioni e le mistificazioni degli apparati tecnico scientifico per negare
e controllare, attraverso le istituzioni della violenza e della tolleranza, le
contraddizioni sociali produttrici di sofferenza psichica.
Basaglia è sempre rimasto, per sua scelta, un
funzionario pubblico, affermando il valore di una medicina pubblica, non
esercitando la professione privata. Nei suoi incontri-dibattito svolti in
Brasile e raccolti poi nel libro postumo “Le conferenze brasiliane”, dichiara,
a fronte di chi afferma il valore preminente di una militanza politico-ideologica,
che la vera rivoluzione consiste nello svolgere, fino in fondo, la propria
professione. Non è forse stata proprio quella la istanza che lo ha portato a
promuovere l’esperienza goriziana, provocando il cambiamento del paradigma
psichiatrico? Quando Basaglia entra la prima volta nel manicomio di Gorizia, ha
voglia di fuggire, di ritornare ai privilegi dell’Accademia, dove si può fare
teoria. Si domanda: ma questo mondo di sopraffazione e violenza che cosa a che
vedere con la mia professione di medico? Poi capisce che il suo dovere di
medico è proprio quello di lottare contro questa realtà e contro la ideologia, contro
la pseudo scienza che la sostiene. In questa scelta lo aiuta la sua esperienza personale
di impegno politico. Franco è stato incarcerato da giovane per attività
antifascista. Riconosce nel manicomio la stessa logica della prigione che ha
sperimentato sulla sua pelle. Decide, così, di condividere la sua vita fino in
fondo con chi deve curare, fino alla sua libertà. Rimane nel puzzo di
urina dei reparti, nella miseria, tra la povertà dei proletari, decostruendo
giorno per giorno, la violenza del manicomio. Fino alla fine, fino alla
possibilità per tutti di lasciarsi alle spalle quell’orrenda e inutile
istituzione.
Basaglia è profondamente gramsciano nel rifiutare le
velleità della antipsichiatria (condivide un progetto politico sociale e sa che
il cammino per l’egemonia è lungo e difficile). Basaglia è veramente un seguace
di Marx: non si tratta più, ormai, di parlare, di interpretare la realtà, è
tempo, ormai, di cambiare il mondo.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Ernesto Venturini: Considerando il piacere offertomi da
questa circostanza, sarò generoso e le proporrò ben due citazioni, che sono,
però, di uno stesso autore – Antoine de Saint-Exupéry – e recuperano, in
qualche modo, il tema del viaggio.
La prima riprende una delle citazioni che sono presenti
nel libro; chiarisce il valore della motivazione in un’impresa di alto
significato politico, etico, scientifico, quale la deistituzionalizzazione.
Dice Saint-Exupéry:
“Se vuoi costruire una
nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la
legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il
lavoro. Ma, invece prima, risveglia negli uomini la
nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro
questa sete si metteranno subito al lavoro per
costruire la nave”.
La seconda rimanda alla ricerca di senso per quel
viaggio, che è la nostra vita:
“Fai della tua vita un sogno, e di un sogno, una
realtà.”
A.M.: Ernesto, la nostra lunga chiacchierata è stata
di sicuro illuminante avendomi permesso di accedere ad un periodo storico che,
seppur recente, non è propriamente argomento di discussione per la mia
generazione. Ha profondamente ragione quando scrive – un poco, in modo
malinconico– che non si conosce la figura di Franco Basaglia, la si cita per la
Legge 180 come se fosse una sorta di leggenda. È vero! Non ci è stato
presentato l’uomo né la lotta ideologica che è stata affrontata, noi (e qui oso
parlare per la mia generazione) abbiamo dato per scontati “i diritti civili
ai folli”. Il mio augurio ai lettori è di riuscire a viaggiare nel tempo
tramite le sue parole tanto da provar a tratteggiare il passo ed il suono del
celebre psichiatra, nonché il lavoro che lei ha svolto e che svolge
quotidianamente. La ringrazio vivamente per la lectio che mi ha concesso
e la saluto con le parole dello stimato Carl Gustav Jung: “Quanto più sei
intelligente, tanto più folle è la tua ingenuità. Le persone ultraintelligenti
sono matte complete nella loro ingenuità. Non possiamo salvarci
dall’intelligenza dello spirito di questo tempo cercando di essere più
intelligenti ancora ma accettando ciò che è più contrario alla nostra
intelligenza, ossia l’ingenuità. Non vogliamo però neppure diventare apposta
degli stolti rendendoci schiavi dell’ingenuità, ma saremo piuttosto degli
stolti intelligenti. Questo ci conduce al senso superiore. L’intelligenza si
unisce all’intenzione. L’ingenuità non conosce intenzioni. L’intelligenza
conquista il mondo, mentre l’ingenuità conquista l’anima. Fate dunque il vostro
voto di povertà di spirito per poter essere partecipi dell’anima.”
Written by Alessia Mocci
Info
Sito Negretto Editore
https://www.negrettoeditore.it/
Pagina Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Citazioni inedite tratte da “Il sale e gli alberi”
https://oubliettemagazine.com/2020/06/08/il-sale-e-gli-alberi-citazioni-tratte-dal-saggio-sulla-salute-mentale-curato-da-ernesto-venturini/
Intervista integrale su: https://oubliettemagazine.com/2020/07/07/intervista-di-alessia-mocci-ad-ernesto-venturini-vi-presentiamo-il-sale-e-gli-alberi/
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