Confesso che non capisco proprio la i-Phonemania né la condivido.
Premetto che non possiedo un i-Phone e se mai un giorno ne avrò uno non farò i
salti di gioia. Sì, insomma, dubito che proverò l’ebbrezza che milioni di persone pare
stiano assaporando in queste ore dopo avere acquistato l’ultimo modello, il
melafonino n°5. I giornali riportano la notizia che code incredibili e feste
hanno segnato l’inizio delle vendite anche in Italia, il Paese in cui l’i-Phone
5 ha il prezzo più alto. Un particolare che non ha inibito gli Apple-fan
nostrani, indifferenti alla grave crisi economica ma quanto meno onesti nel
dichiarare che per loro il melafonino è come un vizio. Beh, sempre meglio del
gioco d’azzardo o della tossicodipendenza, che prosperano malgrado lo spread. Certamente
è un fenomeno unico e stupefacente ma a mio modo di vedere preoccupante. Perché?
Perché non soddisfa un reale bisogno, tutt’al più supplisce a un’assenza, una
mancanza, un vuoto a perdere. Tra poco mi spiegherò meglio. Non voglio entrare
nel merito tecnico della questione, non mi interessa disquisire sulle qualità e
i difetti dell’i-Phone né confrontarlo con altri telefonini di moda. Mi preme,
invece, capire le ragioni per cui l’I-Phone è l’oggetto del desiderio di un
numero esagerato di persone, molte delle quali fanno dolorose rinunce e persino
debiti pur di averlo.
Ho già
dedicato all'argomento “telefonia” il post Digito ergo sum. Gli schiavi del telefonino,
pubblicato il 28/3/2010, dove ho espresso le mie opinioni in merito. Qui voglio
andare oltre e fare alcune considerazioni socio-antropologiche. Ho parlato di
assenza, mancanza, vuoto. Ebbene, mi riferisco al fatto che il melafonino è per
molti dei suoi possessori-fruitori l’equivalente della coperta di Linus. Il
piccolo Linus, fratello di Charlie Brown, è uno dei Peanuts, i personaggi dei
fumetti inventati nel 1950 dal disegnatore americano Charles Schulz. Come ben
sanno coloro che conoscono e amano i Peanuts, Linus è un bambino precoce ma
pieno di complessi e insicurezze. Per
ovviare a ciò, per acquisire fiducia e autostima, non può fare meno di
stringere a sé una coperta di flanella e succhiarsi il pollice. La sua è una
sindrome che dipende dalla paura di essere giudicato dagli altri, di essere
considerato incapace se non imbranato, di non essere “in” per usare
un’espressione moderna. In effetti, senza la sua coperta, che lo conforta e
normalizza, Linus è “out”. Nello stesso modo, l’i-Phone si è imposto come
panacea di una patologia contemporanea diffusissima, la convulsione dell’Ego.
Si tratta di un disturbo ufficioso complesso, caratterizzato dall’incapacità di
relazionarsi nel modo corretto con gli altri e con la vita, per cui ci si agita
alla stregua di anguille nella rete pur di farsi accettare. È una sindrome determinata dal bisogno
di gridare al mondo “Io esisto” alla quale fa da contraltare un’avvilente
impotenza. Ne conseguono le contrazioni involontarie cui ricorriamo per affermare
che ci siamo, siamo vivi e vegeti. Le aggravanti sono le assenze (i veri
valori, le certezze) e le mancanze (affettive e culturali). L’Ego, trovandosi
spesso a galleggiare nel marasma esistenziale, nel vuoto pneumatico, nell’anonimato
che assorda e annichilisce, necessita di infrastrutture esterne cui aggrapparsi.
Il denaro, un’automobile veloce, un partner affascinante, un orologio costoso, un
paio di scarpe di moda, un telefonino che vada oltre il vecchio concetto di
“status symbol” per trasformarsi in emblema di modernità, aggregazione e
successo. L’i-Phone soddisfa questi bisogni nutriti dal falso mito che è
importante apparire piuttosto che essere. Esso comunica agli altri che siamo
“in”.
Ed io che pensavo fosse solo un
telefonino multifunzionale! – potrebbe obiettare qualcuno. No, non è solo un
telefonino, è molto di più. È la coperta di Linus, ripeto, così come la sigaretta è il
surrogato del ciuccio. Nel primo caso, il bisogno del supporto esterno è
determinato dalla paura di non essere accettato e dal desiderio di approvazione
sociale, mentre nel secondo emerge un altro “trauma”, l’incapacità del
distacco, il bisogno della dipendenza. Naturalmente è il modo in cui si usano
le cose che connota il loro significato, variabile da soggetto a soggetto.
Tuttavia, ci sono costanti comportamentali inequivocabili. Il modo in cui tanti
fruitori ostentano l’i-Phone, lo portano a spasso o tirano fuori dalla borsetta
come fosse un chihuahua, lo brandiscono come se assolvesse la funzione di
scettro del comando, sottolinea una valenza aggiunta specifica del melafonino. Il
gioiellino della Apple non è più uno strumento tecnologico ma una credenziale sociale
per cui si discosta anche dalla coperta di Linus. A Linus bastava una modesta
coperta di flanella per vincere le sue insicurezze. A noi serve la coperta di
cashmere. Forse, ci accomuna a Linus il dito pollice succhiato con avidità.
Quel dito si è evoluto, si è adattato a governare il display con maestria, si è
trasformato nell’auricolare o nello stesso orecchio che è diventato un tutt’uno
col nostro prezioso i-Phone, senza il quale ci si sente perduti, vulnerabili,
disconnessi.
Ma quando mai? E perché dovremmo preoccuparci di non essere in
connessione col prossimo? Bisognerebbe preoccuparsi di connettere il cervello,
di essere in sintonia con la nostra coscienza, il nostro Io divino, anziché
preoccuparsi delle tacche e della carica di un banale (per quanto utile)
utensile-giocattolo. Va da sé che molti usano l’i-Phone con garbo e
intelligenza, non ne diventano succubi né lo utilizzano per fingersi persone
realizzate. Per costoro, l’i-Phone non è la coperta di Linus ma solo un oggetto
per comunicare, informare ed essere informati, oltre che divertirsi. Il ché
dovrebbe essere per tutti ma non è. Altrimenti non ci sarebbero code né feste.
Povera
umanità! Chi l’avrebbe detto, trent’anni fa, che il genere umano si sarebbe
evoluto a tal punto da rivoluzionare il concetto di “felicità”. Già, perché
“felicità” è la parola più adeguata per definire lo stato d’animo di chi, dopo
avere fatto la veglia e la coda, è riuscito ad acquistare l’i-Phone 5 e in
queste ore lo sta mostrando a tutti come fosse un trofeo, una medaglia d’oro al
valore civile, un diploma di laurea ad Harvard. Sarà, ma per me, l’i-Phone 5
resta un semplice giocattolo e la felicità è qualcos’altro. A proposito, mi
viene in menta una scena di Luci della
Ribalta, un bellissimo film che fa ridere e commuove ancora oggi. Quando la
ballerina Claire Boom chiede della felicità, Charlie Chaplin risponde “Esiste,
le dico”. “Dove?”. “Senta. Da ragazzo mi lamentavo sempre con mio padre perché
non avevo giocattoli. Lui mi diceva: questo (si indica la testa) è il più
grande giocattolo del creato, è qui il segreto della felicità”.
Giusto, ma vai a fargliela capire a certa
gente che Dio non ha dato la testa all’uomo perché ci incollasse il telefonino.
www.giuseppebresciani.com
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