All'incontro sono intervenuti il Vice Presidente della Federlazio Luigi Volante, il Direttore Generale della Federlazio Giovanni Quintieri, il Presidente di Confindustria Lazio Maurizio Stirpe, la Preside della Facoltà Economia Università di Cassino Enrica Iannucci, l'Assessore alle PMI, Commercio e Artigianato della Regione Lazio Francesco De Angelis. L'incontro è stato coordinato da Alberto Di Majo, Caporedattore Cronaca Roma de Il Tempo.
Uff Stampa FEDERLAZIO
Davide Bianchino
06.54912362 – 348.3590370Sintesi per la stampa
Venerdì 22 febbraio 2008
Sede Federlazio di Frosinone
CONSIDERAZIONI DI SINTESI
Il 4° Rapporto sul Lazio segna il ritorno della Federlazio ad un filone di analisi che intende guardare il mondo imprenditoriale, segnatamente quello della piccola e media impresa, sforzandosi di superare gli angusti confini dell'economicismo.
Solo per fare un po' di memoria storica, ricordiamo che il 1° Rapporto di questa serie, risalente al 1998, si era soffermato sulle modificazioni, già allora evidenti, che riguardavano l'identità della nostra regione e le difficoltà di disegnare intorno ad essa un profilo univoco e una strategia di sviluppo unitaria.
Il 2° Rapporto, che si colloca intorno alla metà del 2001, si era invece imperniato in particolar modo sull'importanza che assume la dimensione territoriale nella determinazione delle dinamiche di sviluppo in una regione a forte presenza di Pmi come il Lazio.
Il 3° Rapporto, realizzato nel 2003, aveva posto invece l'accento sulle cosiddette "economie di relazione" e sulla programmazione negoziata quali strumenti di rilancio dello sviluppo locale.
Con il 4° e finora ultimo Rapporto abbiamo voluto spingere un po' di più sul pedale dell'analisi metaeconomica, per offrire più spazio alla dimensione socio-culturale dell'agire imprenditoriale. Nel farlo, siamo stati mossi soprattutto dalla constatazione che oggi le indagini rivolte allo studio delle dinamiche di sviluppo nella regione risultano, a nostro avviso, spesso incapaci di andare molto al di là della riproposizione di elementi conoscitivi già noti. Non che non possa essere utile talvolta anche un'operazione di riordino e sistematizzazione di conoscenze già acquisite, ma occorrerebbe quanto meno procedere con un certo senso della misura.
Convinti di questo, e anche del fatto che alla fine, in questa sovrabbondanza di informazioni economico-statistiche, si corre il rischio di lasciare fuori fattori secondo noi non secondari, come ad esempio le determinanti socio-culturali del comportamento imprenditoriale, abbiamo allora orientato proprio su quelle il nostro focus di indagine, operando una trasposizione dell'oggetto di indagine dal concetto di impresa a quello di imprenditore.
La differenza potrebbe apparire irrilevante, ma in realtà non è così. Quando parliamo di impresa, infatti, l'oggetto di osservazione è un'entità impersonale, è il locus dove i fattori produttivi vengono combinati in base a regole di razionalità economica, tecnologica, organizzativa, al fine di ottenere determinati risultati. Quando, viceversa, oggetto dell'analisi diventa l'imprenditore, allora l'attenzione si sposta sull'attore che rappresenta il vero dominus di quella combinazione, colui che vi immette la propria visione, la propria progettualità, le proprie aspirazioni, la propria cultura. Partendo da qui, la prospettiva diventa allora un po' meno consueta e l'approccio tende a spostarsi dal piano "statistico-quantitativo" a quello "antropologico-qualitativo", ovvero dall'analisi delle grandezze economiche alla ricostruzione dell'identità del piccolo e medio imprenditore di questa regione.
La scelta di privilegiare questa direttrice di studio muove anche dalla presa d'atto dell'esistenza di un deficit di rappresentazione della figura del piccolo e medio imprenditore, non solo presso le istituzioni ma anche nella più ampia coscienza collettiva del paese. Le analisi economiche lasciano generalmente un po' più in ombra quest'aspetto, che invece noi riteniamo niente affatto residuale, proprio ai fini della spiegazione delle dinamiche economiche in atto.
Con questo studio noi abbiamo voluto provare a fornire una rappresentazione più realistica di un universo, che una parte almeno dell'opinione pubblica percepisce a nostro avviso in modo distorto.
Vi è una parte della cultura corrente che tende infatti ad accreditare un'immagine dei piccoli e medi imprenditori tutt'altro che edificante. Non di rado essi vengono dipinti come individui che vivono allegramente nella ricchezza grazie allo sfruttamento del lavoro nero, alla violazione delle norme sulla sicurezza e all'evasione delle tasse. Per giunta, essi diventano destinatari di questo tipo di apprezzamenti senza neanche ricevere – diciamo così quale "contropartita" – tutte quelle gratificazioni in termini di status che la società dei mass media riserva ai grandi capitani d'industria, ai rampolli di nobili dinastie industriali, a coloro insomma che possono associare il proprio nome a quello della storia industriale ed economica di questo paese. Questi ultimi infatti, sebbene non siano risparmiati dagli strali della critica sociale, tendono almeno a conservare presso molta parte dell'opinione pubblica – e talora degli stessi "antagonisti di classe" – uno charme che un po' li mette al riparo della disapprovazione sociale, rendendoli oggetto di palese ammirazione. Cosa che, viceversa, non accade nel caso del piccolo e medio imprenditore.
Noi, riteniamo dunque ingeneroso, oltre che ingiusto, ignorare o non apprezzare debitamente, il contributo, la storia, il ruolo della miriade di piccoli e medi imprenditori che silenziosamente, con le sole proprie forze, senza il sostegno delle istituzioni, delle grandi banche, dei grandi mezzi di comunicazione, hanno costruito il tessuto economico di questo paese, creando benessere diffuso, dando occupazione, facendo coesione sociale, collocando infine l'Italia nel novero dei paesi più industrializzati del mondo.
Generalmente tali imprese sono quelle che fanno meno clamore, sono quelle che quando nascono – ma soprattutto quando muoiono – lo fanno nella sostanziale indifferenza delle istituzioni, le quali, irresistibilmente attratte dai grandi numeri, sembrano scuotersi ed entrare in fibrillazione solo quando invece è una grande impresa a mostrare segnali di crisi e ad agitare lo spettro del licenziamento o della cassa integrazione. Senza peraltro fermarsi a riflettere sul fatto che il licenziamento di 1.000 operai da parte di una sola grande impresa, ad esempio, non è di per sé cosa più grave del licenziamento, poniamo, di 2 operai ciascuna da parte di 500 ipotetiche piccole e medie imprese. L'unica differenza è che nel primo caso tutti – dai sindacati, ai governi, ai mass media – mostrano preoccupazione correndo al capezzale del malato, mentre nel secondo l'evento resta avvolto sostanzialmente in una generale coltre di indifferenza.
Ecco, noi abbiamo voluto provare a ripristinare un equilibrio in questo quadro, almeno dal punto di vista della conoscenza e della rappresentazione sociale. E l'abbiamo fatto cercando di andare al di là degli stereotipi per provare a comprendere chi sia realmente questo attore, così centrale per la nostra economia e tuttavia così marginale dal punto di vista della considerazione sociale, quali valori, quali riferimenti ideali, quali tratti culturali lo connotino, cosa lo muova e cosa lo freni.
Ne è nato una sorta di viaggio nella cultura del piccolo e medio imprenditore di questa regione. Lo strumento con il quale questo viaggio è stato compiuto è quello che in gergo tecnico viene definita intervista non strutturata, che ci ha consentito di scandagliare in profondità alcuni interessanti aspetti del suo sistema di riferimento. Questo tipo di intervista si distingue per il fatto che, diversamente dal questionario strutturato con risposte precodificate, essa lascia l'intervistato libero di esprimersi seguendo il filo naturale dei suoi ragionamenti e al contempo di reagire agli input di tanto in tanto provocati dall'intervistatore. In questo modo emergono più agevolmente gli orientamenti valoriali dell'intervistato, i suoi tratti culturali, i suoi riferimenti per l'azione.
Rinviando pertanto alla lettura integrale del Rapporto per l'insieme dei contenuti emersi, offriamo in queste considerazioni introduttive una sintesi di alcuni degli elementi còlti dalle interviste.
Dunque, che quadro ci restituisce questo studio?
Sul piano identitario, diciamo subito che ci troviamo di fronte ad un'imprenditoria decisamente connotata da due tratti peculiari: l'empirismo e la cultura del fare. Con questo si vuole intendere che il piccolo e medio imprenditore ha ricevuto la sua formazione ed acquisito il corpo di conoscenze poi riversato nella professione dall'esperienza pratica. E lo ha fatto secondo due modalità: dando spazio ad una preesistente vocazione artigiana, che egli decide ad un dato momento di mettere a frutto compiendo il "salto industriale"; oppure valorizzando il know how tecnico acquisito nella sua precedente esperienza di lavoro dipendente presso un'azienda.
Un deciso impulso verso l'autorealizzazione, un'originaria spinta interna a mettersi in proprio, unitamente ad un potente ego hanno portato il nostro imprenditore a lasciarsi alle spalle la condizione di subordinazione connessa al lavoro dipendente, evidentemente ritenuto non più rispondente alle proprie aspirazioni, per tentare, forte delle conoscenze nel frattempo acquisite, l'avventura dell'intrapresa individuale.
A ben vedere, questa è il percorso tipico di quasi tutta la nostra piccola e media imprenditoria nazionale; un percorso che non deve mai essere dimenticato, ma anzi tenuto sempre bene in vista dalle Istituzioni nel momento in cui esse elaborano le politiche per lo sviluppo e per l'impresa, se si vuole che non falliscano i propri obiettivi.
In aggiunta a questa decisa componente di pragmatismo, il nostro imprenditore non può non coltivare dentro di sè anche una chiara visione prospettica delle cose, un senso del progetto e del costruire, senza i quali non potrebbe affrontare quel quid di incertezza e di aleatorietà su cui cammina qualsivoglia progetto imprenditoriale. Egli modifica gli equilibri esistenti e ne costruisce di nuovi. È l'artefice insomma di quella "distruzione creatrice" che si ritrova nell'idealtipo dell'imprenditore schumpeteriano. Tutto questo è nel suo DNA ed è anche la spinta che lo muove costantemente.
Se tenta però di autovalutarsi in quanto categoria sociale all'interno del più ampio contesto sociale e istituzionale, il piccolo e medio imprenditore avverte nettamente la sua condizione di debolezza "politica", quale portato della sua sostanziale sottorappresentazione sociale, che stride ancor più fastidiosamente se posta a confronto con la forza che invece questo soggetto è capace di esprimere sul piano economico.
Su quest'aspetto si nota purtroppo l'affiorare di un sentimento di rassegnazione, che si impadronisce dei soggetti nel momento in cui essi avvertono di non riuscire a contrastare come vorrebbero questa deriva.
Una deriva, si badi bene, verso la quale essi avvertono di essere spinti non solo da responsabilità altrui (delle istituzioni e/o della politica) ma anche da una colpevole mancanza di coesione interna da parte dell'intera categoria, che costituisce, a detta degli stessi attori, un limite strutturale alla difesa dei propri interessi.
Interessi che invece i piccoli e medi imprenditori vedono molto ben difesi da quello che anche solo implicitamente diviene il punto di riferimento dialettico con il quale spesso ci si confronta, vale a dire la grande impresa. Rispetto alla quale, i nostri imprenditori paiono nutrire un atteggiamento diffuso di risentimento, che riposa non già su vaghe posizioni pregiudiziali, ma su una ben consapevole contrapposizione di interessi concreti, che si rende visibile agli occhi dei piccoli e medi imprenditori in una pluralità di ambiti. Ad esempio nelle gare d'appalto, dove i piccoli si sentono sistematicamente marginalizzati da una presenza invadente e monopolizzante dei grandi, anche in quelle gare che, per taglio e dimensione, potrebbero – anzi dovrebbero – essere ignorate da questi ultimi, che ne fanno invece terreno di facile conquista. Oppure nei ritardi dei pagamenti (che si vanno ad aggiungere a quelli che già le Pmi devono sopportare da parte della P.A.) per i quali le imprese subfornitrici diventano di fatto, loro malgrado, finanziatori dei committenti.
Queste sono le principali ancorché non esclusive questioni che delimitano altrettanti terreni di confronto, per non dire di scontro tra Pmi e grandi imprese. Scontro che potrebbe invece essere sostituito – auspicherebbero gli intervistati – da un leale e trasparente rapporto di collaborazione e complementarietà, in una logica di filiera, laddove le grandi imprese si sforzassero di introdurre delle discontinuità nei comportamenti consolidati. E' infatti appena il caso di aggiungere che i piccoli e medi imprenditori non disconoscono affatto il ruolo positivo della grande dimensione, anzi è largamente diffusa la convinzione che quest'ultima sia assolutamente indispensabile per lo sviluppo del paese, ma a condizione che essa sappia svolgere il ruolo di testa di ponte del sistema-paese sui grandi mercati internazionali, senza invadere invece i mercati d'elezione delle piccole.
Proprio in questo dualismo grande impresa/piccola e media impresa risiede una delle componenti di quel generale sentimento di disagio che percorre per intero le dichiarazioni degli intervistati. Quando questi ultimi affermano che oggi è più difficile fare impresa, anche a causa di un mercato più esteso di un tempo, ma anche assai più affollato, e comunque a più elevato tasso di concorrenzialità interna, significa per loro prendere atto che si sta operando in un contesto contrassegnato da una notevole incertezza, che rende il "fare impresa" un'attività con un po' meno appeal e un po' più aleatorietà di quanto comunemente non si ritenga. Va anche detto però, per completezza di informazione, che tale incertezza non viene considerata esclusivamente la conseguenza di condizioni oggettive e ineluttabili, ma con grande determinazione e nettezza essa viene attribuita in buona misura anche alla responsabilità della classe politica nella sua interezza, senza distinzioni tra livelli locale e nazionale.
E' qui che forse si può scorgere nella sua essenzialità quello scollamento tra classe politica e società civile che caratterizza in particolare la fase storica odierna. E' qui che affiora più nitidamente la delusione e la conseguente disaffezione verso la politica. E' qui, infine, che il risentimento per la "casta" si può toccare con mano.
L'imprenditore, molto semplicemente mette a confronto i tempi dell'economia e dell'impresa con quelli della politica; la "cultura del fare" con "la cultura del parlare" e conclude che la politica è diventata disfunzionale all'economia.
E' interessante tuttavia sottolineare come, nonostante le difficoltà del fare impresa, il piccolo e medio imprenditore non smetta di avere un rapporto simbiotico con la propria azienda, che lo porta ad identificarvisi completamente. Qui, ad esempio, si coglie un altro importante elemento di difformità tra la grande e la piccola impresa, o, per meglio dire, tra l'atteggiamento dei manager, che governano la prima e l'atteggiamento imprenditoriale in senso proprio, tipico della seconda. In quest'ultimo caso l'azienda è vista dall'imprenditore come una sua creatura, qualcosa per la quale egli ha speso, oltre che risorse finanziarie, anche la sua passione e una parte importante della sua vita, non di rado sottraendola alla famiglia e agli affetti. E' naturale che quell'azienda sia dunque per lui fonte di soddisfazioni morali non meno che materiali. Per il manager, evidentemente, anche quando egli possegga conoscenze, cultura e capacità persino superiori a quelle dell'imprenditore, vi può forse essere una qualche forma di identificazione con l'azienda, ma è difficile per non dire impossibile – sostengono gli intervistati – che scatti qualcosa di simile a quello che accade nella testa e nell'animo dell'imprenditore.
Questo è un aspetto importante della psicologia e della cultura del piccolo e medio imprenditore, su cui vale senz'altro la pena richiamare l'attenzione. Ciò soprattutto in relazione alle tanto sbandierate politiche per favorire la crescita dimensionale, che – guarda caso – passano però tutte per "linee esterne", ovvero proponendo fusioni, accorpamenti, incorporazioni, piuttosto che per "linee interne". Le prime non hanno prodotto risultati apprezzabili proprio perché agiscono sui fattori "freddi" e trascurano il fatto che per il piccolo e medio imprenditore una fusione, un accorpamento, un'incorporazione non hanno soltanto il significato di mere operazione economiche ma rappresentano qualcosa di più profondo. Possono significare lo snaturamento della propria creatura, la sua perdita di identità, per diventare qualcos'altro cui manca inevitabilmente l'imprinting originario dell'imprenditore. E tutto questo, si può comprendere, diventa difficile da accettare.
Alla luce di tutto ciò, ci sembra di poter dire che sarebbe probabilmente più utile che le istituzioni studiassero politiche volte a favorire più che le fusioni tout-court, dei processi di graduale avvicinamento operativo tra imprese diverse. In altri termini qualcosa di più simile a delle strutture dove le imprese che decidono di attivare delle sinergie possano, conservando ciascuna la propria identità e autonomia, innanzitutto approfondire la loro conoscenza reciproca, per poi procedere nel tempo – ci si passi il termine – a delle "cessioni parziali di sovranità", a favore della costituenda struttura comune per il perseguimento di progetti operativi condivisi.
Questa fase potrebbe preludere, laddove se ne rinvenissero le condizioni, a forme di collaborazione via via più evolute, e solo allora sfociare eventualmente in vere e proprie fusioni.
Anche perché, è opportuno aggiungere, l'obiettivo della crescita aziendale è certamente avvertito anche dai piccoli e medi imprenditori, ma con un atteggiamento non eccessivamente ansiogeno, ovvero come una possibilità ma non da perseguire a tutti i costi. In fondo – sostengono gli intervistati – non esiste una "dimensione ottima" dell'impresa valida in assoluto, ma essa è funzione di variabili quali il settore, il tipo di prodotto, l'area di localizzazione, insomma il mercato. Si cresce se e quando le condizioni e le convenienze lo consentano e lo consentano stabilmente.
La conclusione che si può ricavare su questo fronte è che è inutile sollecitare una crescita dimensionale delle imprese in astratto: bisogna prendere atto che l'Italia è fatta di Pmi, che sceglieranno di crescere nella misura in cui ciascuna lo riterrà opportuno e conveniente anche in base alle politiche di accompagnamento in questa direzione che le istituzioni saranno in grado di mettere in campo.
E veniamo, infine, all'immagine del futuro e a che cosa esso ha in serbo, nell'ottica del nostro imprenditore. Le interviste hanno messo in luce un atteggiamento sostanzialmente ottimistico, che del resto è di solito connaturato allo spirito imprenditoriale. Ma si tratta – si badi bene – di un ottimismo riferito principalmente alle chances della propria azienda, in contrapposizione invece ad un più sostanziale pessimismo che ha per oggetto il contesto istituzionale più in generale. Ciò che gli imprenditori intervistati intendono con questo significare, in buona sostanza, è che la Pmi, a partire dalla propria, è strutturalmente meglio attrezzata per le sfide future rispetto alla grande, perché più flessibile, più adattabile, più pronta a reagire ai mutamenti del mercato. Essa ha dunque un futuro più roseo. Tuttavia, è altrettanto diffusa tra gli imprenditori interpellati la convinzione che l'incapacità dello Stato di creare un habitat "amichevole" per le Pmi farà sì che molte di loro, di fatto, non saranno in grado di esprimere appieno il proprio valore e le proprie potenzialità rischiando pertanto il declino.
Ancora una volta in definitiva vediamo riproporsi il rapporto fortemente dialettico tra economia e politica, che ormai sembra diventato il segno distintivo dei nostri tempi in particolare in questo paese.
Sulla capacità di ricomporre tale conflitto si giocherà dunque la credibilità del sistema politico e del sistema paese più in generale, ma soprattutto si giocherà la partita della competitività della nostra economia nei confronti degli altri sistemi nazionali, che già ora ci incalzano da vicino.
LA METODOLOGIA D'INDAGINE
Il contenuto del IV Rapporto Lazio si basa sugli esiti di una serie di interviste effettuate ad imprenditori associati alla Federlazio.
In particolare, si tratta di 106 imprenditori che l'Ufficio Studi e Comunicazione della Federlazio ha sottoposto a un'intervista non strutturata, articolata su quattro aree tematiche: L'identità imprenditoriale, Il contesto socio-istituzionale, Il disagio del fare impresa, La visione del futuro.
L'intervista non strutturata ha consentito all'imprenditore di rispondere con grande libertà e senza essere costretto entro una griglia di domande con risposte codificate. Ciò ha permesso di cogliere una serie di elementi e di stati d'animo che altrimenti sarebbero rimasti inespressi.
Laddove necessario, l'intervistatore si è limitato a ricondurre l'intervistato entro la traccia tematica definita, qualora se ne fosse involontariamente allontanato. La durata media di ogni intervista è stata di circa un'ora.
Le interviste sono state svolte con la garanzia dell'anonimato. E' stato inoltre eliminato qualsiasi riferimento che potesse consentire al lettore di ricondurre il contenuto dell'intervista a un determinato imprenditore. Tuttavia, alla fine del Rapporto, sono elencati i nominativi delle aziende che hanno acconsentito di figurare tra i ringraziamenti.
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