Sommario
I. Yanacocha e Máxima: una questione di
terra o Terra?
II. Alla ricerca dell’oro tra Yanacocha e Conga.
III. Repressione della protesta e privatizzazione della
polizia.
EPILOGO: la spina nel fianco di Yanacocha.
PROLOGO
Per arrivare da lei è necessario un permesso di transito, dichiarare il
numero del passaporto, la targa del proprio veicolo e mostrare motivazioni
convincenti.
Si è obbligati a passare per un check-point che ostruisce l’unica strada
adatta ai mezzi a quattro ruote.
Lì alcuni funzionari di un’impresa privata controllano i documenti con
l’autorità che si addice a uno Stato più che a un’azienda. E non è sufficiente.
É una telefonata che arriva dai piani alti che decide il destino del
viaggiatore.
Alla fine, se si è fortunati, si arriva. Non nella cella di un criminale ad
alta pericolosità. Ma a casa di una contadina peruviana che vive a 4200m nelle
Ande, a nord della città di Cajamarca.
Máxima Acuña Chaupe ha sorriso da lontano quando ci ha visto alla sommità
della collina che sovrasta la sua terra. Sa che ci vuole una volontà di ferro
per raggiungerla.
I. Yanacocha e Máxima: una
questione di terra o Terra?
Nella provincia di Celendin, a 77 chilometri da Cajamarca, a nord del Perù,
la libertà di movimento è stata ridotta ai minimi termini, da quando la
multinazionale Yanacocha, di proprietà della Newmont Corporation, ha acquistato
i terreni della zona per ampliare la miniera d’oro omonima e sviluppare il progetto
estrattivo Conga.
Ha comprato anche la strada pubblica che conduce a casa di Máxima e alla
comunità di Santa Rosa, dove vivono circa 200 famiglie.
Yanacocha possiede tutto, tranne una terra.
Da 24 anni, Máxima Acuña Chaupe, 44 anni e meno di un metro e cinquanta di
altezza, vive a Tragadero Grande, nei suoi 24,8 ettari farciti d’oro, e non
intende andarsene.
Mentre le sue mani laboriose scorrono tra il coltello e la buccia delle
patate che affetta fini per il minestrone, inizia a raccontare e le parole si
mischiano allo scroscio della pioggia che si abbatte sul tetto di lamiera.
Ricorda il 9 agosto del
2011, quando Yanacocha, con le ruspe e il consenso della polizia, ha tentato di
sgomberarla per conquistarsi a forza il pezzo mancante al suo piano.
Eppure Máxima ha ottenuto legittimamente il suo campo nel 1994. Così dicono
i documenti.
Nelle zone alto-andine le terre sono proprietà delle comunità che le danno
in concessione ai contadini. Si può vendere unicamente se i 2/3 della collettività
firmano il consenso, insieme a chi detiene il possesso della singola parcella.
Nel 1996 Yanacocha ha comprato centinaia di ettari direttamente dalla comunità
di Sorochuco, tra cui, a suo dire, anche il terreno di Máxima. Lei però non è
stata interpellata e, ignara della compravendita, non solo ha rischiato di
essere cacciata a forza, ma è stata denunciata per aver invaso illegalmente il
suo stesso terreno.
Se si tratta di un escamotage della multinazionale per accaparrarsi Tragadero
Grande, verrà deciso dal giudice che nei prossimi mesi si pronuncerà sulla
proprietà. Al momento l’accusa di usurpazione è decaduta. Dopo quasi 4 anni di
processo penale, il 17 dicembre 2014 Máxima è stata riconosciuta innocente dal
tribunale di Cajamarca.
Ma Yanacocha non si arrende. Incuranti di un processo in corso, convinti
che Máxima sia nel torto, gli uomini della vigilanza privata dell’azienda
intervengono fisicamente nel terreno per rimuovere ogni attività vitale della
donna.
A luglio 2015 la casa di Máxima era un campo bombardato di macerie. Terra
smossa al posto del recinto per i porcellini d’india. Un rettangolo di pietre
grigie a ricordo di una casa in costruzione e zolle bruciate dove prima c’era
un campo di patate. «A volte, di notte, qualcuno in cavallo gira intorno alla
nostra casa. Li sento sempre più vicini. Si fermano e poi se ne vanno». dice
con la voce un po’ rotta Máxima.
E così nel tentativo di difendere un diritto amministrativo, una proprietà
che suppone sia sua, la Corporation lede i diritti umani di un’intera famiglia.
Mentre Yanacocha pensa che il conflitto giri intorno a una terra, Máxima
parla di Terra.
La sua resistenza non è solo difesa legittima di un possesso. Máxima, come
gran parte della popolazione della regione, è in pié de lucha contro il
progetto Conga nel suo insieme. Si
sente investita della responsabilità di difendere il territorio dall’attacco
della multinazionale che al posto di cinque laghi sorgivi e del paramo
alto-andino vorrebbe una miniera d’oro a cielo aperto.
Se Máxima non lascia la sua casa, Conga no va e la Newmont rischia di perdere il corrispettivo
economico di 11.3 milioni di once d’oro e 3.1 miliardi di libbre di rame, la
quantità di minerali che si stima estrarre nei prossimi 19 anni.
Chi rappresenta la multinazionale crede che la resistenza ambientalista della
contadina sia verde come i dollari che spera di ottenere per abbandonare le sue
terre.
Mentre la guardo mescolare la zuppa che bolle nella marmitta nera e
consunta, Máxima non nasconde la sua condizione. Vive senza luce, senza sistema
fognario, senza acqua corrente e senza riscaldamento in una terra che splende a
18 gradi di giorno e gela a meno 5 gradi
di notte. Ma non è interessata neppure a un grammo d’oro che c’è poco sotto al
suo materasso.
Intanto scende l’imbrunire e dietro alla sua testa, a 200 metri, si vede il
profilo nero di un recinto che, come una gabbia, corre intorno al suo terreno. È
una delle ultime installazioni di Yanacocha che ufficialmente serve per delimitare
le sue proprietà, ma di fatto pone Máxima e la sua famiglia in una situazione
di detenzione. I sentieri montani sono stati ostruiti e l’unica via d’uscita è
la strada sterrata di proprietà dell’azienda che passa vicino a un avamposto
dove gli uomini di vigilanza dovrebbero allevare gli alpaca, ma che in pratica trascorrono
il tempo guardando e fotografando ciò che accade nella casa della donna.
Il disagio di mangiare sotto gli occhi di qualcuno che osserva da distante,
è palpabile. Máxima non se ne va da lì. “Che tosta che è”, penso. Lei intercetta
il mio sguardo e sorride. Poi passa un piatto fumante ai suoi commensali,
accartocciati su piccole panche accanto alle braci scoppiettanti della cucina.
II. Alla ricerca dell’oro tra Yanacocha e Conga
Yanacocha in quechua significa laguna nera. Una volta era un lago sorgivo
incastrato tra i 3500m e i 4200m nella zona di Cajamarca.
Nel suo nome si
vedono le ombre scure che le nuvole, più vicine alla terra, disegnavano sulle
sue acque. Oggi la Yanacocha cristallina non c’è più. Al suo posto, acquisendo
il nome in modo beffardo, c’è una Yanacocha d’oro, una multinazionale e un’omonima
miniera a cielo aperto.
Dal 1993 la compagnia, proprietà al 51,35% della nordamericana Newmont, al
43,65% della peruviana Buenaventura e al 5% dell’International Finance
Corporation, agenzia della World Bank, ha estratto 35milioni di once d’oro. Per
ottenere un’oncia, corrispettivo di 7 fedi nuziali classiche da 4 grammi, bisogna
frantumare tra 1,5 e 2 tonnellate di roccia e utilizzare la tecnica della
lisciviazione, un processo in cui il materiale viene attraversato da una
soluzione di acqua e cianuro che permette di separare l’oro da altri minerali.
Barre da 22 kg al 30% di oro e al 70% di argento prendono il volo dal Perù per
raggiungere gli impianti di raffinazione della Newmont in Svizzera. Da lì escono
lingotti di oro puro che alimentano il circuito delle Banche Nazionali, come
dichiarato dalla stessa azienda, e l’industria orafa.
Yanacocha sta per morire. Le riserve auree si estingueranno in 5 anni. Per
questo, fin dal 1996 l’azienda ha cominciato a fiutare l’oro, ma anche il rame,
in zone limitrofe, trovandolo nella provincia di Celendin, dove ha iniziato ad
accaparrarsi le terre per lo sviluppo del progetto Conga, con un investimento di 4,8 milioni di dollari.
Alle sue spalle il favore del Governo peruviano, aperto fin dal primo
mandato di Alan Garcia alla presenza di investitori stranieri, con una
maggioranza attuale di aziende statunitensi e cinesi. La World Bank, nonostante
dichiari l’ interesse a promuovere modelli sostenibili che coinvolgano le
piccole comunità, ribadisce dalla pagine del suo sito che l’alleanza con il
Perù si basa sulle priorità economiche del Paese.
E su questo il Governo non ha dubbi: con un investimento di 34milioni di
dollari negli ultimi 4 anni il settore estrattivo è volato alle stelle. Il 20%
del territorio è in concessione ad aziende minerarie, portando il Perù al
35esimo posto al mondo in quanto a clima favorevole agli investimenti, ma nella
top 10 dei Paesi dilaniati da conflitti ambientali, secondo l’Environmental
Justice Atlas.
Lo Stato ne guadagna in parte. La Newmont paga il 30% sulle rendite. Un
contratto solo all’apparenza favorevole, perché all’azienda è sufficiente dichiarare
un passivo per azzerare l’utile dello Stato. A questo si somma la mancanza di un’imposta
fissa per ottenere il diritto a estrarre i minerali. Così decise negli anni
Novanta Alberto Fujimori con l’obiettivo di preservare la competitività del
Paese. In questa storia, la distruzione del territorio non ha un prezzo. Se
viene trovato l’oro, l’azienda paga, altrimenti pazienza.
Il progetto Conga prevede la distruzione
della laguna Azul, Perol, Chailluagón, Empedrada per la realizzazione di due
miniere a cielo aperto, due depositi di materiali di scavo e spianate per
installazioni per un netto di 3000 ettari di flora e fauna cancellata. L’azienda
prevede la realizzazione di quattro bacini artificiali con una portata d’acqua maggiore
dei laghi naturali.
Ma per la popolazione di Celendin, Cajamarca e Hualgayoc le lagune sono
molto di più di riserve d’acqua. Fanno parte di un bacino idrogeologico
complesso da cui nascono i 5 fiumi che scendono verso le tre province. Gli
scavi di Conga potrebbero danneggiare
il sistema di vasi comunicanti del bacino, pregiudicando l’irrigazione di circa
25mila ettari.
In 22 anni di miniera, Cajamarca ha fatto i conti con razionamento di acqua
e inquinamento. Teofilo Castrecòn, un contadino della comunità di San José,
racconta che nel 2014 la pioggia, filtrata nei depositi di materiali di scavo
della miniera, è scesa a valle contaminando il piccolo rio che attraversa il
suo villaggio. Decine di capi di bestiame sono morte abbeverandosi alle sue
acque, con un conseguente impoverimento dei loro proprietari.
«Ci impegneremo a migliorare la qualità dell’acqua di San José e delle
comunità limitrofe» commenta Javier Velarde, il direttore di Yanacocha, ma
intanto i contadini della zona ogni giorno camminano un’ora per poter riempire
taniche di acqua salubre.
E mentre l’azienda cerca di mettere in moto Conga promettendo un’impennata del benessere, Cajamarca è la
regione più povera del Perù, con il 52% della popolazione in povertà monetaria.
Máxima fa parte della percentuale che va per la maggiore, con almeno 700mila
abitanti della zona.
III. Repressione della protesta e privatizzazione della
polizia
Mentre arranco alle sue spalle, tra le colline bruciate dal sole, Máxima mi
dice che le lagune sono madri. Antiche, femminili e generatrici. Divinità di terra
e acqua che tessono interdipendenze tra flora, fauna e gli esseri umani che ne
beneficiano.
I guardiani delle lagune sono i
custodi di questo culto. Tra loro c’è anche Máxima, c’è Edilberto che vive
nella comunità di Santa Rosa, ma studia legge a Cajamarca, c’è Milton Sanchez,
uno dei leader della protesta, c’è Marco Arana, candidato alle presidenziali
del 2016, ci sono gli allevatori di Celendin, le massaie della comunità di San
Marcos, i venditori di formaggio di Cajamarca. Migliaia di persone che chiedono
un modello di sviluppo di lungo periodo in relazione di reciprocità e armonia
con il territorio.
Sanno che protestare costa caro.
Negli scontri del 2012 contro la politica estrattiva di Humala Ollanta a
Cajamarca, 5 persone persero la vita nel giro di 24 ore.
Lo Stato centrale scatenò la Dinoes, divisione delle operazioni speciali
del corpo di polizia, nata nel 1987 per fronteggiare terrorismo, narcotraffico
e criminali ad alta pericolosità. Con un unico comando, Humala ammise che la
protesta ambientalista doveva essere schiacciata come si fa con il nemico in
guerra.
Nel suo piccolo ufficio di Cajamarca, Mirtha Vasquez, l’avvocata di Máxima,
si morde il labbro inferiore mentre pensa al numero di contadini a cui ha
fornito assistenza. «Ho perso il conto. Credo siano 300. Alcuni di loro hanno
incassato 50 denunce a testa. Yanacocha sostiene che senza il consenso del
popolo non continuerà il progetto Conga,
ma intanto usa lo strumento legale e la violenza contro chi mette in
discussione il suo operato. Il tutto con il beneplacito delle autorità del nostro
Stato» spiega Mirtha.
Ai servigi di Yanacocha c’è Securitas, un’impresa di sicurezza privata
armata fino ai denti. Ma se si sente minacciata, la multinazionale può fare
affidamento anche sulla polizia nazionale peruviana, che all’occorrenza può
essere privatizzata.
L’articolo 51.1 della legge 27238 permette la firma di accordi tra la
polizia dello Stato e i privati. La forza pubblica può fornire a un’impresa fino
a 30 unità al giorno per attività di protezione di persone, beni e
installazioni.
I poliziotti possono essere contrattati durante il loro normale orario di
lavoro oppure nel loro tempo libero. Nel primo caso l’azienda privata paga una
percentuale al singolo e un corrispettivo alla polizia, nel secondo caso i
soldi sono intascati solo dall’agente.
Tra un militare che lavora nella polizia e un collega che presta servizio
per l’impresa non c’è differenza. Entrambi indossano la divisa e abbracciano le
armi dello Stato. Entrambi giureranno di svolgere servizio pubblico. Ma uno dei
due difende interessi privati.
Un contadino che manifesta di fronte ai cancelli di Yanacocha non capirà
mai se chi lo attacca ha ricevuto un ordine da un colletto bianco aziendale o
dallo Stato. E senza saperlo, sarà colpito da entrambi.
EPILOGO
La spina nel fianco di Yanacocha.
Máxima fa paura a Yanacocha. Anche se il direttore dell’impresa dice no, l’accanimento
nei confronti della donna sembra dire sì.
In questa storia Yanacocha ha già perso. Se anche Tragadero Grande fosse
suo, ha comunque perso. Ha perso la faccia di fronte alla comunità
internazionale per i metodi inumani e degradanti utilizzati in una guerra
contro una contadina in nome di 25 ettari scarsi.
E ha paura di Máxima, perché lei rappresenta un precedente inaccettabile.
Una contadina che tiene testa ai grandi interessi economici, pronta a vendere
le sue vacche per pagarsi un processo. Una donna che ha osato pretendere gli
stessi diritti di una multinazionale, comunicando coi fatti che è legittimo
difendere un territorio.
E Máxima ha già vinto. Vince quando sta seduta a filare o raccoglie la
valeriana. Vince quando riprende ancora una volta la zappa in mano dopo che
qualcuno le ha distrutto il campo di patate.
Quella sera, quando la lascio, mi piego e le stringo le mani. Lei ha la
voce rotta. Io ho la faccia arsa e lo stomaco chiuso. La ringrazio per le
colazioni e le cene. So che le sono costate più di due fedi di Cartier.
Poi prendo il cavalletto in spalla. Il mio collega e l’autista mi aspettano
in cima alla collina. Arranco ancora una volta. Máxima è in piedi sull’aia. Sulla
mia schiena sento il suo sguardo orgoglioso che mi sospinge. E non mi giro più
indietro.
SIMONA CARNINO
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