Non
potevo esimermi dal presentare l’Inferno
chiamato Afghanistan anche a Brescia. Avrei tradito le mie origini
bresciane, chiaramente rivelate dal cognome che porto. Sabato 1 dicembre, alle
ore 18:00, racconterò il mio Afghanistan al pubblico bresciano che avrà la
compiacenza di ascoltarmi presso la Libreria Feltrinelli in Corso Zanardelli 3.
Come è già accaduto col mio post dedicato a Pavia, ho cercato anche per Brescia
il trait-d’union con l’Afghanistan. L’ho trovato subito, facilmente. Sono due mondi distanti che posti su una
metaforica carta geografica antropologica si avvicinano e meriterebbero
d’essere segnalati, come nei tempi antichi, con la dicitura topografica Hic sunt leones.
Cominciano con Brescia. Tutti sanno che è detta la
leonessa d’Italia e che è “beverata
nel sangue nemico”, come recita l’ode Alla
Vittoria di Giosuè Carducci. Ma non fu lui il primo a immaginare Brescia
come una leonessa. Il merito è di un poeta veronese, Aleardo Aleardi, che
vent’anni prima, nel 1857, nei suoi Canti
patriotici scrisse “leonessa d’Italia, Brescia grande e infelice”. È noto
che Brescia meritò questo titolo per via dell’eroico comportamento dei suoi fieri
abitanti, che dal 23 marzo al 1 aprile 1849 insorsero contro gli austriaci. Ben
prima delle “Dieci giornate di Brescia”, uno dei momenti più alti della prima
guerra d’indipendenza, il leone, che oggi compare rampante e di colore azzurro
su fondo argento nello stemma della città, era già familiare ai bresciani.
Parlo del leone di San Marco, che indicava come la città facesse parte della
Serenissima Repubblica di Venezia. Pur tuttavia, il leone era presente a
Brescia ancor prima del dominio veneziano.
E l’Afghanistan? A tale proposito,
mi sembra esaustivo il capitolo del mio libro dal titolo Le iene ridono dove regnarono i leoni. Eccone uno stralcio.
“All’ingresso dello zoo di Kabul – un
luogo fatiscente e triste che ho visitato col cuore pesante – fa bella mostra
di sé una statua di bronzo raffigurante un leone. La targa posta sul basamento
riporta: Marjam. Era il leone più
famoso del mondo. Marjam non era un
leone qualsiasi bensì l’infelice sovrano dello zoo di Kabul. Era il simbolo di
un Paese capace di resistere a tutto, fuorché al proprio degrado. La sua storia
merita di essere conosciuta. Marjam era nato nel 1976 e fu donato allo zoo di
Kabul da quello tedesco di Colonia. Accolto come attrattiva, divenne suo
malgrado un testimone della follia afghana. Sopravvisse dapprima all’omicidio
del re Zahir Shah, all’ascesa al trono di suo fratello Daoud, al colpo di stato
dei comunisti, all’invasione sovietica, alla guerra civile scatenata dai
mujaheddin, alla distruzione di Kabul fino alla presa di potere da parte dei
talebani e alla loro cacciata, a seguito dell’arrivo degli americani. Morì
malconcio il 25 gennaio 2002, lasciando costernati gli abitanti di Kabul e il
mondo intero, che si era affezionato a questo felino coraggioso, ormai ridotto
a un patetico, grosso pupazzo di panno lenci. Si dice avesse quarant’anni e lo
si credeva immortale. Marjam era sopravvissuto a molti dei bambini che erano
impazziti per lui, a molte mamme morte sotto le bombe, a tanti papà scomparsi
nel nulla e persino a un attentato. Andò così. Nel 1993, un mujaheddin entrò
nella gabbia per mostrare il suo coraggio. La leonessa Chucha non lo degnò di
un solo sguardo ma Marjam reagì. Lo assalì e lo uccise. Il giorno dopo, il
fratello della vittima lanciò una granata nella fossa dei leoni. Chucha morì e
Marjam perse un occhio, i denti e parte di un arto. Però salvò la pelle e da
quel momento in poi divenne un eroe, un mito vivente la cui celebrità varcò i
confini dell’Afghanistan. Orbo, costretto a cibarsi di carne disossata,
claudicante ma pur sempre fiero, Marjam ha fatto in tempo a salutare con una
certa pigrizia i soldati stranieri venuti da molto lontano per riportare la
pace e la libertà. La sua morte è stata una liberazione dalla cattività che non
meritava. Il posto di Marjam è stato preso da due leoni che la Cina offrì alla
città per riempire il vuoto lasciato dalla sua scomparsa. L’anno scorso, un
pazzo è entrato nella loro gabbia con cattive intenzioni, proclamandosi l’unico,
vero leone dell’Afghanistan. Va da sé
che il leone Akon non era d’accordo, perciò gli si è avventato contro. L’uomo,
subito soccorso, è stato portato in fin di vita all’ospedale di Emergency, dove
è stato operato d’urgenza. Presentava più di quaranta ferite e gli sono stati
applicati cento punti di sutura. Si è salvato, nonostante la sua incoscienza.
Nell’estate 2009, un tenente veterinario della Folgore ha invece strappato alla
morte Akon, che non se la passava granché bene. Anche se le bombe non piovono
più dal cielo né esplodono granate nelle gabbie, i leoni non possono stare bene
a Kabul. Il loro tempo è finito. Ci fu un’epoca in cui sulla mappa della terra
degli afghani – un territorio chiamato Bactriana, Aracosia, Ariana, Gandhara –
si poteva leggere Hic sunt leones.
Nell’antichità, il leone asiatico era molto diffuso. Curzio Rufo narra che ai
tempi di Alessandro il Grande, nel regno bactriano, il re e la sua corte
potevano cacciare moltissime fiere, fra cui i leoni asiatici, in apposite,
grandi riserve cintate dotate di torri. Era una delle espressioni del fasto
orientale. Gli ultimi leoni selvatici, fatti oggetto di ossessive battute di
caccia, sopravvissero in Afghanistan, Pakistan e India fino alla seconda metà
del XIX secolo. In Iraq, gli ultimi due leoni furono catturati nei primi anni
del ’900 lungo il fiume Khabur. In Persia, l’ultimo leone fu osservato nel
1942. Oggi, i leoni asiatici sono estinti ma per vederne un paio non comuni
basta recarsi ad alcuni chilometri da Kandahar, ai piedi della località detta
Chihil Zina, i Quaranta Gradini che
conducono a una nicchia scolpita in uno sperone roccioso. Da cinque secoli due
leoni che nessuno oserebbe smuovere montano la guardia al piccolo complesso
monumentale voluto da Babur, il fondatore dell’impero Moghul. Ovviamente, sono
di pietra. Era invece umano l’ultimo, leggendario
eroe afghano erede dei tanti condottieri dal cuore di leone che fecero grande
il Paese al tempo degli imperi islamici e dei regni afghani. Il suo nome
suscita ancora oggi orgoglio, ammirazione e commozione. Mi riferisco al
comandante Ahmad Shah Massoud, il leader dell’Alleanza del Nord che durante la
guerra partigiana contro i sovietici seppe respingere le nove offensive che
l’Armata Rossa scatenò nella Valle del Panjshir. La resistenza messa in atto
dai mujaheddin tagiki della valle costò ai sovietici il 60% delle perdite umane
dell’intera guerra in Afghanistan (1979-1989). Il Panjshir – la regione il cui
nome significa cinque leoni –
consacrò l’abile stratega Massoud, il cui valore in battaglia gli valse il
titolo di Leone del Panjshir. Il
ritratto di Massoud (1953-2001) campeggia ovunque a Kabul e in molte altre
città e province dell’Afghanistan. La sua effige fa bella mostra di sé sulle
facciate dei palazzi, sui parabrezza delle automobili, nelle vetrine delle
botteghe. È un eroe nazionale molto amato e avvolto in un alone di leggenda a
causa della sua drammatica e inopinata uscita di scena. Il Che Guevara afghano ha combattuto anche contro i talebani ma era
inviso a chi lo invidiava e temeva. Il 9 settembre 2001, due giorni prima
dell’attentato alle torri gemelle di New York, Massoud trovò la morte per mano
di due arabi vili che si finsero giornalisti. I mandanti dell’assassinio non
sono mai stati scoperti. I sospetti, però, gravitano sui talebani e su
Al-Qaida. Gli si voleva impedire di liberare l’Afghanistan dal gioco dei
fondamentalisti. Uccidendolo, lo si è reso immortale…”
A questo punto, nel mio libro,
a pag. 74, racconto dell’omaggio che ho voluto fare al Leone del Panjshir e
quello che mi accadde in quella valle un tempo piena di leoni e oggi di mine.
Ne parlerò certamente a Brescia e insieme racconterò altri aneddoti che
aiuteranno il pubblico della Feltrinelli a conoscere un Afghanistan quasi
intimo, diverso da quello frettoloso e stereotipato che ci viene presentato
dagli inviati speciali dei giornali e delle televisioni, vincolati dal tempo
che è tiranno e dall’impossibilità di visitare il Paese dei Talebani a briglia
sciolte, senza vincoli e condizionamenti, come invece feci io.
www.giuseppebresciani.com
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