
Venerdì 18 ottobre presenterò alla Biblioteca di
Lenno il mio ultimo libro “Il cantico del pesce persico”. Sarò lieto di farlo
perché il racconto che dà il titolo al libro è una storia a metà via tra il
sogno e la realtà che si svolge sulle acque del Lario. Lenno, splendido borgo
adagiato in una profonda insenatura del lago, è la meta del sacerdote che sale
su un barchino nel porto di Como e con l’aiuto di due giovani e audaci barchiroo decide di sfidare la burrasca pur
di raggiungere il Santuario della Beata Vergine del Soccorso, di cui è il
vicario. L’ultimo piroscafo è partito. Può confidare solo nella forza dei due
aitanti barcaioli e nella Madonna. La storia è avventurosa e connotata da un
fatto miracoloso. La vita stessa di Don Pagani e il suo ministero al Sacro
Monte di Ossuccio, che giace su un dirupo, di fronte all’isola Comacina, è di
per sé romanzesca. La vicenda, tratta da un episodio reale, ha un altro
protagonista: il pesce persico. Quella volta, era il lontano 1906, il persico
del lago non fu primattore in cucina ma strumento della misericordia divina.
Ecco l’incipit…
Il
persico reale è un pesce d’acqua dolce che vanta caratteristiche ben note ai
pescatori e ai barcaioli. Tra di esse c’è quella di essere muto. Come tutti i
pesci, per altro. Eppure, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 1906, tre uomini
in barca (come direbbe Jerome K. Jerome) lo sentirono cantare. In verità, a
cantare furono almeno venti esemplari di persico del lago di Como e non uno
solo. Facevano parte di un coro ittico inverosimile che si esibì nel tratto di
lago fra Torriggia e Brienno per almeno dieci minuti.
Impossibile
– si dirà, il pesce persico non canta, al massimo boccheggia e fa rumore
guizzando nell’acqua. Non è mica un fringuello e neanche una sirena! Lo
pensavano anche i tre uomini in barca, che non parlarono mai di ciò che capitò
loro per non essere tacciati di ubriachezza se non di pazzia. Ma uno di loro,
che era prete, riportò l’accaduto nel suo diario, che è tornato alla luce.
Perciò sappiamo come andarono realmente le cose e se qualcuno insisterà a dire
che il pesce persico non canta è perché non crede ai miracoli.
L’acquazzone
era stato violento. L’acqua era scesa a catini sulla città e per una buona
mezz’ora le vie e le piazze si erano svuotate. Fortunatamente, il temporale non
aveva fatto gravi danni, salvo strappare un po’ di rami agli alberi con molte
fronde e sradicare un platano sul lungolago. La gente che si era riparata dalla
pioggia sotto i portici riguadagnò la strada.
Come
sovente accade dopo le buriane estive, si era levato un forte vento di
tramontana che aveva cominciato a infierire sulla superficie del lago con la
stessa malagrazia di un batticarne su una scaloppa di vitello.
La
fine del temporale aveva dunque dato inizio a quello che i laghèe, la gente che vive sulle sponde del lago, chiamano l’ora in
cui “bala la stria”.
In
Piazza Cavour c’era fin troppa agitazione. La Riva – è in questo modo che i
comaschi chiamavano la piazza divenuta il polmone della città verso il lago
oltre che il suo porto turistico – era sottosopra e chi ci lavorava non era
rimasto certo con le mani in mano da quando aveva smesso di piovere.
Nel
mezzo della piazza spiccava un giardinetto con quattro lampioni, dove le balie
erano solite amoreggiare con i soldati della guarnigione comasca, in
particolare i fanti di stanza nella caserma De Cristoforis. C’erano anche le
coltivazioni municipali in mezzo alle quali si rincorrevano come tarantolati i
ragazzini. C’era stato un tempo in cui il cuore della piazza era occupato da
una fontana detta dell’oca che era stata smantellata nel 1891. Se la
ricordavano in tanti la fontana; aveva venticinque getti di acqua potabile ed
era ricca di statue e decori di pietra. C’erano sirene, cavalieri acquatici,
conchiglie marine, mostri pelagici e puttini. L’oca che assegnava il nome alla
fontana era in realtà un cigno dal lungo collo teso e dal cui becco usciva un
poderoso zampillo. Poi, qualcuno aveva deciso che bisognava eliminarla.
Il
centro della piazza era vuoto. Nessuno la attraversava o vi sostava a causa del
forte vento che soffiava. Lungo il perimetro della Riva era tutto un
affaccendarsi. Vi erano ben sei alberghi – Italia, Barchetta, Svizzera, Bella
Vista, Volta e Plinius – e tre ristoranti, il Frasconi, lo Sbodio e il Plinio.
Camerieri e inservienti si davano da fare per legare fra loro i tavolini
all’aperto ed evitare che il vento trascinasse via le sedie. Gli alberghi erano
stracolmi di turisti, soprattutto il Volta. Quest’ultimo era stato costruito là
dove per due secoli e mezzo aveva fatto bella mostra di sé l’Albergo
dell’Angelo, presso il quale avevano soggiornato ospiti illustri e famosi.
C’era da trafficare anche lungo le quattro gradinate riservate all’approdo di
barche e barchini e lungo i pontili di attracco dei piroscafi della Lariana.
Era proprio a bordo lago che i lavoratori si affaccendavano più alacremente.
Bisognava assicurare le cime e svolgere ogni altra incombenza resa necessaria
dal maltempo.
La Lariana
società anonima di navigazione a vapore nel Lago di Como, nata nel 1884 dalla
fusione delle due imprese di navigazione esistenti, aveva una flotta di
diciotto piroscafi e un rimorchiatore. Il piroscafo più vecchio, il glorioso Unione, era stato varato nell’ormai
lontano 1857. Il più recente, il Milano,
era entrato in servizio il 28 agosto 1904 compiendo il viaggio da Como fino a
Colico. Nel pomeriggio del 21 luglio 1906, alcuni piroscafi della Lariana
stavano navigando, altri erano fermi, qualcuno era appena approdato ai pontili
di Como o era partito per il centro lago o l’alto lago per l’ultima corsa della
giornata. Di alcune corse minori era stata decisa la cancellazione a causa del
cattivo tempo. Ovviamente i turisti erano rintanati in albergo o nei caffè. Non
era la giornata giusta per una gita in battello.
Non
era neanche il giorno ideale per noleggiare un barchino e concedersi un po’ di
sano diporto nel primo bacino del lago, in compagnia di amici o della morosa.
Presso l’imbarcadero della Besana, che a chiunque ne facesse richiesta forniva imbarcazioni
d’ogni tipo, con o senza rematori, ci si lamentava per i magri affari della
giornata. La Besana, una signora nota in città per le sue forme giunoniche,
impartiva ordini ai suoi dipendenti col piglio con cui Orazio Nelson diede
disposizioni sulla tolda della Victory durante
la battaglia navale di Trafalgar. Per sua fortuna, non c’erano tiratori
francesi che potessero prenderla di mira. Il vento faceva volare di tutto
fuorché le pallottole. Ella sapeva come gestire l’emergenza. La sua flotta era
di piccolo pescaggio ma contava più unità della Lariana. Fra batèj, navet,
gondole e lucie aveva da gestire una raggiera di almeno quaranta scafi.
Quando
si accorse che un batel di legno di castagno stava sbattendo contro uno spalto
in muratura, cacciò un grido che fece sobbalzare i gabbiani. Un barchiröo di
nome Pierluigi si affrettò a risolvere il problema prima che la padrona tirasse
giù dal piedistallo i santi ai quali era solita rivolgersi la mattina, quando
apriva il suo “negozio” all’aria aperta, con i piedi nell’acqua, chiedendo al
cielo che il lago fosse docile e il sole splendesse così caldo e luminoso sì
che la gente cercasse refrigerio in barca.
All’improvviso,
sul lungolago passò il tram e la Besana si soffermò ad ammirarlo. I comaschi
avevano a lungo sostenuto questa novità, concretizzatasi da poco. La linea
internazionale che univa la Funicolare alla stazione ferroviaria San Giovanni,
passando per piazza Cavour, era stata inaugurata l’1 gennaio 1906 e da allora
il passaggio del tramway elettrico della Stec (Società Tram Elettrici Comensi)
era divenuto una vera attrattiva oltre che una comodità.
Lo
sguardo della Besana restò piantato solo pochi istanti sulla vettura elegante
della Stec, la cui parte superiore era dipinta di giallo tenue e l’inferiore
mostrava una grande fascia rossa con lo stemma della città. La vettura era
semivuota. In altri momenti sarebbe stata piena zeppa e sul lungolago le
avrebbe fatto la posta un nugolo di bambini che all’apparire del tram non potevano
esimersi dal recitare la cantilena venuta di moda. “L’è scià, l’è scià, l’è
scià. L’è scià ul tramvai ch’el va. El va che par minga vera. Tirum, tiram,
tirera. Sta atent de stravacà. Tirum, tiram, tirà!”
Il
tram passò davanti al baracchino della Besana, dunque, la quale stava
distogliendo lo sguardo ma subito ci ripensò, fiondandolo davanti a sé perché
un uomo in sottana nera, con una borsa sotto il braccio, correva trafelato
verso le banchine. Pareva che fosse inseguito dai creditori o da un branco di
lupi famelici. L’uomo raggiunse la biglietteria della Lariana che era mezzo
bagnato per il temporale e mezzo sudato per la corsa. Fu chiaro che doveva
prendere il piroscafo e quando alzò le mani in cielo per poi appoggiarle sulla
testa canuta in segno di disperazione, fu altrettanto chiaro che l’aveva perso.
l’Elvezia e il Vittoria erano appena partiti. Il primo da un quarto d’ora, l’altro
da appena cinque minuti.
«E
adesso come faccio!» si lasciò scappare l’uomo.
Si
guardò intorno e incontrò lo sguardo indagatore della Besana. I due si
conoscevano. Chi non conosceva il povero don Antonio Pagani? Era uno dei
sacerdoti più strambi e chiacchierati della diocesi. Subito si avvicinò alla
Besana e tradusse in una richiesta formale la sua improvvisa intuizione.
«Sciura
Cleofe, ho perso il piroscafo e devo tornare a casa! Domani devo celebrare la
messa. Mi fareste portare a Sala con una delle vostre barche?»
«Siete
fuori di testa?» chiese la Besana. «Non vedete che il lago l’è rabiaa!»
«Sì,
lo vedo ma io devo tornare al Santuario della Madonna del Soccorso. Vi
scongiuro, per l’amore di Dio, datemi una delle vostre barche…»
Cleofe
Besana fece una smorfia eloquente. Avrebbe risposto “ma va a ciapà i ratt” a
chiunque le avesse fatto una richiesta così insulsa ma l’uomo che la stava
supplicando non era chiunque. Con quel prete sempre frettoloso e spesso in
ritardo, dall’aspetto trasandato ma tale da suscitare rispetto, giacché
incarnava l’ideale del sacerdozio prima maniera, aveva scambiato due parole più
di una volta. Era amabile ed era impossibile negargli un favore, per quanto
ultimamente circolassero voci maligne sul suo conto. (continua)
www.giuseppebresciani.com
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