IL FEDERALISMO FISCALE : E' DIVENTATO LEGGE DELLO STATO, NEL FRATTEMPO E' CADUTA L'ETICA PUBBLICA.
di Amedeo Lepore
Il testo sul federalismo fiscale è stato approvato definitivamente dal Senato e diventa legge. Tuttavia, i suoi effetti sono stati differiti lungo un arco di sette anni, per realizzare una graduale applicazione dei principi contenuti nel provvedimento, fino alla sua piena entrata a regime, e per evitare di dover subito assumere decisioni impopolari, a cominciare da quelle legate al rispetto della clausola di salvaguardia, secondo cui, dalle norme sul federalismo fiscale non possono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Ovvero, i problemi di copertura finanziaria da parte degli Enti territoriali, così come la nuova organizzazione dell'imposizione e della spesa, possono comportare, alternativamente, un aumento dei tributi o una riduzione delle uscite o una soppressione di servizi a livello locale. Il "federalismo fiscale", nell'interpretazione che è prevalsa, appare come un modo per operare una redistribuzione di risorse finanziarie a favore delle Regioni settentrionali, nonostante le petizioni di principio sul nuovo assetto dello Stato. Vedremo se e come il governo metterà mano anche alla Carta delle autonomie e alle riforme costituzionali, che dovrebbero accompagnare la legge-delega. Intanto, va considerato che, soprattutto grazie alla tenace azione della SVIMEZ e del suo presidente, Nino Novacco, vi sono stati cambiamenti sostanziali nel provvedimento approvato - rispetto al modello proposto dalla Regione Lombardia e al testo iniziale presentato in Parlamento -, che ne hanno attenuato alcuni elementi iniqui per il Mezzogiorno e distorsivi per il funzionamento dello Stato. Restano, tuttavia, gli interrogativi riguardanti l'effettiva capacità della legge di realizzare piena autonomia di entrata e spesa degli Enti locali, riuscendo a sostituire, gradualmente, il parametro della spesa storica con quello dei costi standard per l'erogazione dei servizi essenziali, che dovrebbero essere forniti uniformemente in tutto il Paese. E persistono anche gli interrogativi relativi al grado di responsabilità che, attraverso questo provvedimento, si vorrebbe indurre nell'amministrazione della cosa pubblica, specie dopo le rovinose prove offerte da diverse Regioni meridionali. Infatti, si è visto che la fine dell'intervento straordinario e la diminuzione dei trasferimenti nazionali alle aree del Sud non ha comportato la diffusione di comportamenti virtuosi. Anzi, è stato proprio negli ultimi anni che si è registrato un peggioramento della capacità amministrativa locale e una caduta della cosiddetta "etica pubblica", negli Enti territoriali del Mezzogiorno. Questo fenomeno è stato determinato, più che dalla quantità di risorse erogate, da cattive politiche e da strategie di sviluppo esiziali: il tentativo maldestro di rifugiarsi nei "tradimenti" subiti dal Sud non può nascondere il fallimento delle scelte localistiche, della dispersione assistenziale e della distribuzione a pioggia dei finanziamenti europei. Per questo motivo, appare del tutto infondata l'idea secondo cui a minori risorse pubbliche potrebbe corrispondere un maggiore sviluppo del Mezzogiorno. Il limite più grave del provvedimento sul federalismo fiscale è proprio quello di lasciare inattuata o, addirittura, di contraddire la seconda parte dell'art. 119 della Costituzione, che impegna lo Stato a destinare risorse aggiuntive, attraverso interventi speciali, per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, con l'obiettivo di rimuovere gli squilibri economici e sociali delle aree più arretrate del Paese. Questa scelta, specie di fronte all'incedere della crisi, avrebbe dovuto rappresentare un punto cardinale dell'azione di governo e, in ogni caso, l'elemento qualificante di una legge che si propone di realizzare il dettato costituzionale. Invece, si diluisce ulteriormente la finalità del riequilibrio, fino a far scomparire ogni riferimento a interventi di carattere macroeconomico per il Mezzogiorno e a permettere interventi di tipo compensativo, indifferentemente al Sud come al Nord, con il risultato di favorire le aree più avanzate. Infine, non è dato di sapere come verrà applicata questa nuova normativa, visto il suo carattere di delega, ma, soprattutto, vista la mancanza di qualsiasi conteggio sull'impatto della riforma e considerati i tempi di due anni per l'emanazione dei decreti attuativi da parte del governo, che portano ad aumentare fino ad altri cinque anni i termini per il passaggio dalla spesa storica al costo standard. In questo periodo non breve, che potrebbe far riaprire perfino la discussione sulle scelte che si stanno effettuando ora, il Mezzogiorno non può rimanere alla finestra. Le Regioni del Sud, anche attraverso la costituzione di un organo permanente di monitoraggio sulla realizzazione del "federalismo fiscale", dovrebbero tentare di avviare una nuova fase di coordinamento delle proprie strategie in una dimensione di macro-area. Le forze sociali meridionali, perlomeno quelle più avvertite, dovrebbero impegnarsi a fondo per creare nuovi obiettivi alla loro azione, interpretando la crisi come una possibilità di cambiamento e di assunzione di responsabilità. Il Mezzogiorno, da solo, non ce la potrà mai fare, ma di una nuova consapevolezza dei compiti di crescita culturale e competitiva, come pre-condizione per l'affermazione di nuove classi dirigenti, si avverte fortemente la necessità. Solo così, il talento e le competenze dei cittadini del Sud potranno evitare di disperdersi o di emigrare, mettendosi in sintonia con un progetto di risanamento e di riscatto di questa terra.
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