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venerdì 18 gennaio 2013

Volli, sempre volli, fortissimamente volli

Raramente sono autoreferenziale. Ma ieri ho ricevuto una mail che mi ha fatto piacere, lo confesso, e di conseguenza voglio dedicare qualche riga a me stesso. Mi ha scritto Rinaldo Rech, un signore di Desio che sta leggendo Ecce me domine e ha sentito il bisogno di esprimere la sua opinione lusinghiera: Sono passati tre giorni da quando ho ricevuto il suo libro, e sono tre giorni che la febbre della lettura mi ha preso. Come mi sia sfuggito un simile lavoro non me lo perdono. Non è una semplice lettura, è quasi vivere una esperienza. Sono passati ormai cinquant’anni da quando lessi Sinuhe l’egiziano e, come romanzo basato su fatti storici (anche se con una certa approssimazione) lo ritenni il migliore. Oggi so che sbagliavo. Leggo Ecce me Domine quasi dispiacendomi al girare di ogni pagina: è una in meno, quasi vorrei non arrivare all’ultima. Sono pagine che oltre ad un’accurata ricerca storica, contengono quel qualcosa che fa di un libro IL LIBRO e questo, mi creda, succede raramente. Grazie per avermelo fatto conoscere”.  
Penso che Rech esageri. O forse sono così poco abituato a ricevere complimenti che ho come l’impressione di leggere lodi riferite ad altri. Nella fattispecie a un grande scrittore. Il problema, ahimè, è che in tutta onestà, al diavolo la falsa modestia, io ritengo d’essere un bravo scrittore. Peccato che a saperlo siamo solo io e le poche centinaia di persone che mi leggono. È risaputo che Manzoni si lamentava di non riuscire ad ottenere nemmeno 25 lettori fissi. Ma che vuoi? – dirà qualcuno con stizza. Pensi di valere più del Manzoni? No, per carità. Dovrei accontentarmi del fatto che nessuno, fino ad oggi, mi abbia accusato di scrivere male. Non è poi così raro, invece, che i più generosi esprimano entusiasmo per i miei libri. Mi è successo con Ecce me Domine, con Il Vangelo cosmico e ancor più col recente L’inferno chiamato Afghanistan, che è stato apprezzato ovunque l’abbia presentato e da chiunque l’abbia letto. Dovrei essere contento del fatto che alla gente piaccia come scrivo e quello che scrivo. Ma non è così. Non sono contento, se non del fatto di avere allietato chi ha avuto la bontà di leggermi, insegnato qualcosa e contribuito a migliorare qualcuno. Non è poco. Pur tuttavia non riesco a non pensare che i miei libri meriterebbero di più. No, non sono presuntuoso. In fondo, a 57 anni e con una laurea in Lettere Moderne non sono certo un aspirante scribacchino alle prime armi, un velleitario con le idee confuse in merito alla sintassi e un misero armamentario lessicale. Non ho mai smesso di coltivare il mio talento artistico fin dagli anni acerbi dell’adolescenza, di lavorare su me stesso e i miei limiti, di cercare la semplicità e spogliarmi della mia cultura, un fardello pesante che mi ha spesso ostacolato. Oggi scrivo infinitamente meglio di come scrivevo vent’anni fa. Non è un caso che abbia raggiunto buoni risultati, è invece la conseguenza di un lavoro umile e paziente, che ho svolto senza soluzione di continuità per migliorare il mio stile. È il frutto dell’esperienza e della naturale evoluzione spirituale che ognuno di noi vive nel corso della propria esistenza. Credo di non essere un pidocchio caduto nella tramoggia, e a causa di ciò convinto d’essere il mugnaio. Io sono un mugnaio, e la farina del mio sacco è buona. Penso di essere pronto per venderla al mercato, per conquistare il grande pubblico affamato di buoni libri. Purtroppo, mi manca ancora qualcosa. Mi manca d’essere scoperto, riconosciuto, valorizzato. Non è cosa da poco. So che il giorno in cui una casa editrice importante ristampasse i miei libri e, soprattutto, pubblicasse i cinque libri inediti che ho nel cassetto, inizierebbe per me una vita nuova. La vita da scrittore che ho sempre desiderato di vivere. In realtà, non cerco il successo e la fama. La mia vita è stata fin qui un capolavoro. Non disprezzo gli onori. Ma la saggezza che si conquista dopo stagioni ricche e intense mi stimola a cercare altro: la possibilità di donare il bello e il buono che ho dentro di me e che esprimo attraverso il gesto creativo. Penso che se Ecce me Domine fosse stato pubblicato da Einaudi o dalla Mondadori, adesso avrei un raccoglitore pieno di commenti come quello di Rinaldo Rech. Penso altresì che se Mursia non si fosse tirata indietro, mettendomi nella condizione di rescindere dal contratto e pubblicare in proprio L’inferno chiamato Afghanistan, oggi si parlerebbe di questo mio ultimo libro come di un successo letterario. E invece… 
Quest’anno pubblicherò un nuovo libro. È una raccolta di dieci racconti, una sorta di “retablo”. Mi sembrano molto belli, emozionanti. Qualora non trovassi l’editore giusto, sarò costretto ancora una volta ad autofinanziarmi, a penalizzare a priori la visibilità di un’opera che come le precedenti meriterebbe d’essere conosciuta e letta. Quindi? Dove vuoi arrivare? – si chiederanno quelli a cui da fastidio il valore altrui. Voglio arrivare a una conclusione amara, con cui portare il mio ragionamento dal particolare all’universale. Purtroppo, l’editoria non premia il valore né i meriti. Altrimenti tanti bravi scrittori sconosciuti al pubblico ammirerebbero i loro libri sui banchi e negli scaffali delle librerie, quelle stesse librerie che oggi assomigliano a discariche piene di immondizia. L’editoria non è la sola realtà che premia la mediocrità e ignora il talento in nome di logiche contorte. In ogni ambito della vita reale – sociale, economico, culturale, politico, lavorativo, ecc – assistiamo impotenti a comportamenti che connotano i nostri tempi come gli anni del disconoscimento. Chi vale veramente è ignorato o ostacolato a vantaggio del mediocre, del furbo, del fortunato. La volgarità trionfa sull’eleganza, la prepotenza sulla classe. La virtù viene mortificata. Nella nostra società non conta quanto tu sia bravo ma chi conosci. Non ha importanza che tu possa “illuminare” gli altri; gli altri amano la penombra e non gli va che qualcuno li abbagli. In un mondo competitivo, cinico e falso, si finge di apprezzare chi merita ma a un tempo lo si ostacola. Valere più degli altri diventa una colpa. Peggio, una minaccia. Meglio uniformarsi, leccare i posteriori, accettare i compromessi, ingannare. Solo così si emerge, si fa tanta strada. Esistono le eccezioni, sia chiaro. Conosco e stimo un bravo scrittore di romanzi storici, Massimiliano Colombo, che sta avendo il successo che merita. Ma quanti ce ne sono come lui che rimarranno sconosciuti perché la fortuna è cieca o quanto meno miope? Chiunque mi stia leggendo in questo momento ha sperimentato nella sua vita l’ingiustizia, ha subito torti dai mediocri, ha combattuto contro i mulini a vento come il povero Don Chisciotte. Ma che lo dico a fare? Il mal comune non è un mezzo gaudio. 
Il mio sfogo (e chiedo venia) finisce qui. Per quanto mi riguarda, continuerò a scrivere. Con la pazienza di un certosino, la cura di un amanuense. Non rinuncerò mai alla mia vocazione. So che un giorno (spero non troppo lontano) la perseveranza con cui la esprimo sarà premiata. Credo che tutti dovremmo fare fronte all’indifferenza e agli ostacoli della vita facendo nostra la tenacia di Vittorio Alfieri. Si attribuisce al poeta e drammaturgo astigiano la famosa rase “volli, sempre volli, fortissimamente volli”. In realtà, queste parole si leggono in una lettera che scrisse in risposta a tale Ranieri de’ Casalbigi. Poco importa se le abbia pronunciate legato a una sedia (come insegnavano i maestri agli studenti dei miei tempi) o le abbia scritte. Sta di fatto che costituiscono una sorta di manifesto della forza di volontà. Esse ispirano la mia cocciuta ambizione a vedere realizzati i miei sogni, malgrado il mondo sia attualmente distratto. Dovrebbero ispirare le azioni di chiunque pensa di valere e di essere incompreso. Prima o poi il mondo potrebbe accorgersi di noi.
www.giuseppebresciani.com

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