Raramente sono autoreferenziale. Ma ieri ho ricevuto una mail che mi ha
fatto piacere, lo confesso, e di conseguenza voglio dedicare qualche riga a
me stesso. Mi ha scritto Rinaldo Rech, un signore di Desio che sta leggendo Ecce me domine e ha sentito il bisogno
di esprimere la sua opinione lusinghiera: “Sono passati tre giorni da quando ho ricevuto il suo libro, e sono tre
giorni che la febbre della lettura mi ha preso. Come mi sia sfuggito un simile
lavoro non me lo perdono. Non è una semplice lettura, è quasi vivere una
esperienza. Sono passati ormai cinquant’anni da quando lessi Sinuhe l’egiziano e, come romanzo basato
su fatti storici (anche se con una certa approssimazione) lo ritenni il
migliore. Oggi so che sbagliavo. Leggo Ecce
me Domine quasi dispiacendomi al girare di ogni pagina: è una in
meno, quasi vorrei non arrivare all’ultima. Sono pagine che oltre ad
un’accurata ricerca storica, contengono quel qualcosa che fa di un libro IL
LIBRO e questo, mi creda, succede raramente. Grazie per avermelo fatto
conoscere”.
Penso che Rech esageri. O forse sono così poco abituato a ricevere complimenti
che ho come l’impressione di leggere lodi riferite ad altri. Nella fattispecie
a un grande scrittore. Il problema, ahimè, è che in tutta onestà, al diavolo la
falsa modestia, io ritengo d’essere un bravo scrittore. Peccato che a saperlo
siamo solo io e le poche centinaia di persone che mi leggono. È risaputo che
Manzoni si lamentava di non riuscire ad ottenere nemmeno 25 lettori fissi. Ma
che vuoi? – dirà qualcuno con stizza. Pensi di valere più del Manzoni? No, per
carità. Dovrei accontentarmi del fatto che nessuno, fino ad oggi, mi abbia
accusato di scrivere male. Non è poi così raro, invece, che i più generosi esprimano
entusiasmo per i miei libri. Mi è successo con Ecce me Domine, con Il
Vangelo cosmico e ancor più col recente L’inferno
chiamato Afghanistan, che è stato apprezzato ovunque l’abbia presentato e
da chiunque l’abbia letto. Dovrei essere contento del fatto che alla gente
piaccia come scrivo e quello che scrivo. Ma non è così. Non sono contento, se
non del fatto di avere allietato chi ha avuto la bontà di leggermi, insegnato
qualcosa e contribuito a migliorare qualcuno. Non è poco. Pur tuttavia non
riesco a non pensare che i miei libri meriterebbero di più. No, non sono presuntuoso.
In fondo, a 57 anni e con una laurea in Lettere Moderne non sono certo un
aspirante scribacchino alle prime armi, un velleitario con le idee confuse in
merito alla sintassi e un misero armamentario lessicale. Non ho mai smesso di
coltivare il mio talento artistico fin dagli anni acerbi dell’adolescenza, di lavorare
su me stesso e i miei limiti, di cercare la semplicità e spogliarmi della mia
cultura, un fardello pesante che mi ha spesso ostacolato. Oggi scrivo
infinitamente meglio di come scrivevo vent’anni fa. Non è un caso che abbia
raggiunto buoni risultati, è invece la conseguenza di un lavoro umile e
paziente, che ho svolto senza soluzione di continuità per migliorare il mio
stile. È il frutto dell’esperienza e della naturale evoluzione spirituale che
ognuno di noi vive nel corso della propria esistenza. Credo di non essere un
pidocchio caduto nella tramoggia, e a causa di ciò convinto d’essere il
mugnaio. Io sono un mugnaio, e la farina del mio sacco è buona. Penso di essere
pronto per venderla al mercato, per conquistare il grande pubblico affamato di
buoni libri. Purtroppo, mi manca ancora qualcosa. Mi manca d’essere scoperto,
riconosciuto, valorizzato. Non è cosa da poco. So che il giorno in cui una casa
editrice importante ristampasse i miei libri e, soprattutto, pubblicasse i
cinque libri inediti che ho nel cassetto, inizierebbe per me una vita nuova. La
vita da scrittore che ho sempre desiderato di vivere. In realtà, non cerco il
successo e la fama. La mia vita è stata fin qui un capolavoro. Non disprezzo gli
onori. Ma la saggezza che si conquista dopo stagioni ricche e intense mi
stimola a cercare altro: la possibilità di donare il bello e il buono che ho
dentro di me e che esprimo attraverso il gesto creativo. Penso che se Ecce me Domine fosse stato pubblicato da
Einaudi o dalla Mondadori, adesso avrei un raccoglitore pieno di commenti come
quello di Rinaldo Rech. Penso altresì che se Mursia non si fosse tirata
indietro, mettendomi nella condizione di rescindere dal contratto e pubblicare
in proprio L’inferno chiamato Afghanistan,
oggi si parlerebbe di questo mio ultimo libro come di un successo letterario. E
invece…
Quest’anno pubblicherò un nuovo libro. È una raccolta di dieci racconti,
una sorta di “retablo”. Mi sembrano molto belli, emozionanti. Qualora non
trovassi l’editore giusto, sarò costretto ancora una volta ad autofinanziarmi,
a penalizzare a priori la visibilità di un’opera che come le precedenti
meriterebbe d’essere conosciuta e letta. Quindi? Dove vuoi arrivare? – si
chiederanno quelli a cui da fastidio il valore altrui. Voglio arrivare a una
conclusione amara, con cui portare il mio ragionamento dal particolare
all’universale. Purtroppo, l’editoria non premia il valore né i meriti.
Altrimenti tanti bravi scrittori sconosciuti al pubblico ammirerebbero i loro
libri sui banchi e negli scaffali delle librerie, quelle stesse librerie che
oggi assomigliano a discariche piene di immondizia. L’editoria non è la sola
realtà che premia la mediocrità e ignora il talento in nome di logiche contorte.
In ogni ambito della vita reale – sociale, economico, culturale, politico,
lavorativo, ecc – assistiamo impotenti a comportamenti che connotano i nostri
tempi come gli anni del disconoscimento. Chi vale veramente è ignorato o
ostacolato a vantaggio del mediocre, del furbo, del fortunato. La volgarità trionfa
sull’eleganza, la prepotenza sulla classe. La virtù viene mortificata. Nella
nostra società non conta quanto tu sia bravo ma chi conosci. Non ha importanza
che tu possa “illuminare” gli altri; gli altri amano la penombra e non gli va
che qualcuno li abbagli. In un mondo competitivo, cinico e falso, si finge di
apprezzare chi merita ma a un tempo lo si ostacola. Valere più degli
altri diventa una colpa. Peggio, una minaccia. Meglio uniformarsi, leccare i
posteriori, accettare i compromessi, ingannare. Solo così si emerge, si fa
tanta strada. Esistono le eccezioni, sia chiaro. Conosco e stimo un bravo
scrittore di romanzi storici, Massimiliano Colombo, che sta avendo il successo
che merita. Ma quanti ce ne sono come lui che rimarranno sconosciuti perché la
fortuna è cieca o quanto meno miope? Chiunque mi stia leggendo in questo momento ha sperimentato nella
sua vita l’ingiustizia, ha subito torti dai mediocri, ha combattuto contro i
mulini a vento come il povero Don Chisciotte. Ma che lo dico a fare? Il mal
comune non è un mezzo gaudio.
Il mio sfogo (e chiedo venia) finisce qui. Per quanto mi riguarda,
continuerò a scrivere. Con la pazienza di un certosino, la cura di un
amanuense. Non rinuncerò mai alla mia vocazione. So che un giorno (spero non
troppo lontano) la perseveranza con cui la esprimo sarà premiata. Credo che
tutti dovremmo fare fronte all’indifferenza e agli ostacoli della vita facendo
nostra la tenacia di Vittorio Alfieri. Si attribuisce al poeta e drammaturgo astigiano
la famosa rase “volli, sempre volli, fortissimamente volli”. In realtà, queste parole
si leggono in una lettera che scrisse in risposta a tale Ranieri de’ Casalbigi.
Poco importa se le abbia pronunciate legato a una sedia (come insegnavano i
maestri agli studenti dei miei tempi) o le abbia scritte. Sta di fatto che
costituiscono una sorta di manifesto della forza di volontà. Esse ispirano la
mia cocciuta ambizione a vedere realizzati i miei sogni, malgrado il mondo sia
attualmente distratto. Dovrebbero ispirare le azioni di chiunque pensa di valere e di
essere incompreso. Prima o poi il mondo potrebbe accorgersi di noi.
www.giuseppebresciani.com
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