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lunedì 27 febbraio 2006
Le false promesse della psichiatria. di Davis Fiore
Sebbene non ci siano test del sangue o esami in grado di accertare la presenza o l'assenza della malattia mentale, i nostri contributi vengono costantemente spesi nel ricercare la malattia mentale a livello fisico.
Un errore gigantesco fin dall'inizio! Proprio per questo nulla mai è cambiato e ai nostri giorni molte cliniche private italiane praticano ancora l'elettroshock. Non ci sono rimedi e le persone che prendono psicofarmaci lo sanno. Vi ricorrono nella vana speranza di risolvere i problemi, ma bisognerebbe anche raccontare a loro del giro di affari dietro alle droghe psichiatriche, bisognerebbe parlare dei decessi provocati dagli SSRI e dei 28000 rapporti ricevuti dall'FDA per reazioni avverse al Prozac.
Così l'enorme ruota continua a girare finanziando la psichiatria, quando con lo stesso denaro in un anno si sarebbero potuti costruire più di 200 ospedali nel mondo, sovvenendo alla carenza di posti letto per occuparsi di malattie fisiche curabili.
Se molto può essere detto sul soggetto in generale, altrettanto si può dire sul lavoro svolto dai singoli psichiatri, spesso deplorevole. Proprio in questi giorni è stata deposta la sentenza per l'arresto di Donatella Marazziti, psichiatra di Montecatini Terme, accusata di aver usato dei farmaci sperimentali su di una minorenne.
Non dimentichiamo che nel 1985 il Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti constatò che, nonostante gli psichiatri costituiscano l'otto per cento del personale sanitario, uno su cinque circa di coloro che venivano sospesi per atti disonesti praticavano questa professione.
Come se non bastasse, i finanziamenti sono spesso usati in modo illecito. Nel 1990 la Camera dei Deputati USA riportò che 100 milioni di dollari federali erano stati illegalmente dirottati.
Ma a questo punto si potrebbe persino dire che sia meglio avere fondi sprecati che fondi investiti, dopo aver dato un'occhiata ai fatti: ai suicidi provocati dal Prozac; o alle accuse di peculato, abusi sessuali e maltrattamenti che ad esempio lo scorso novembre hanno coinvolto l'istituto di viale Duca degli Abruzzi a Brescia, dove sono stati messi in manette sei psichiatri. Inoltre, per sostenere il grande mercato degli psicofarmaci, si sta cercando in tutti i modi di etichettare i singoli cittadini. In questi giorni ho letto la notizia: "Psichiatria: disturbi per più di 700 mila bimbi italiani". Titoli di questo tipo sono frequenti. Ma su cosa si fondano se la psichiatria non dispone di definizioni chiare e se i test fisici sono privi di valore nel diagnosticare malattie mentali?
Siamo stati illusi tante volte, la psichiatria ci ha promesso di migliorare l'istruzione, la giustizia... ma guardiamoci attorno. Che cos'è stato fatto? Qualcuno potrebbe persino etichettare nostro figlio, diagnosticandogli l'ADHD, e persuaderlo poi a prendere psicofarmaci. Ma è forse assumendo delle pillole che lo si renderà uno studente modello?
Così altri soldi saranno spesi, altri ospedali non verranno costruiti, altri innocenti saranno maltrattati e altri psicofarmaci saranno commercializzati... la storia andrà avanti, finché non sarà divulgata la corretta informazione.
Davis Fiore
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questo articolo è fazioso, chi l'ha scritto non sa neppure cosa voglia dire lavorare giorno dopo giorno con chi ha un disagio psichico, siamo nel 2008 e la Psichiatria è cambiata, aggiornatevi...
RispondiEliminaIL FUTURO DELLA PSICHIATRIA HA LE PORTE APERTE
SPDC APERTI NO RESTRAINT IN ITALIA (2008)
CLASSE A: porte aperte - no contenzione
1. Aversa (SPDC - Ospedale Giuseppe Moscati – resp inf. Messini Giovanni)
2. Caltagirone-Palagonia (SPDC – Ospedale Gravina - resp dr.Astuto)
3. Mantova (SPDC - Ospedale Carlo Poma – resp. dr Rossi )
4. Matera (SPDC - Ospedale Madonna delle Grazie – resp. R. Canosa)
5. Merano (SPDC – Ospedale Franz Tappeiner – resp. dr. Toresini)
6. Novara (SPDC - Ospedale Maggiore della Carità – resp. dr.ssa L. Zedda)
7. Portogruaro (SPDC – Ospedale S. Tommaso dei Battuti – resp inf. S. Saccilotto)
8. Siena (SPDC - Ospedale Policlinico S. Maria delle Scotte – resp. dr. Del Ministro)
9. Trieste (SPDC – Ospedale Maggiore - CSM nelle 24 ore - resp. Inf. Cristina Brandolin)
10. Pescia (SPDC - Ospedale S. Cosma e Damiano in provincia di Pistoia – Resp. dr D’Anza)
11. Caltanissetta (SPDC - Ospedale di “San Cataldo” - Presidio Ospedaliero "Maddalena Raimondi" resp. dr.ssa R. Mazze')
12. Grosseto (SPDC – Ospedale “Misericordia” – no contenzioni - resp dr.a Facchi)
13. Roma (Porte aperte ma si contiene, 1-2 contenzioni al mese - SPDC – Ospedale S. Giovanni Addolorata – resp. dr L. Attenasio)
SPDC “Open door” e la pratica del “No restraint” IN ITALIA
RispondiEliminaPer no restraint si intende:
• la pratica del non legare mai il paziente al letto;
• la pratica del lavorare con la porta aperta in SPDC.
Quasi la totalità del personale sanitario intervistato ritiene di essere in sintonia con la cultura del servizio ed è quindi favorevole a tenere le porte aperte.
Alcuni studi che hanno messo a confronto strutture con porte aperte e chiuse, hanno evidenziato anche un maggior gradimento delle persone ricoverate negli SPDC “Open door” .
Il “non legare” è un indicatore molto sensibile ed attendibile
• di un clima di lavoro interno rispettoso sempre della dignità delle persone, operatori e pazienti, della professionalità degli operatori infermieri e medici;
• della garanzia di rispetto e mantenimento di parametri di struttura quali lo stato degli spazi di vita per i pazienti e di lavoro per gli operatori e il numero degli operatori in servizio;
• di buone e fluide relazioni fra reparto e l’organizzazione complessiva dell’ospedale generale, dai reparti di degenza al Pronto Soccorso .
Gli SPDC “Open door” in territorio nazionale sono: Novara, Mantova, Trieste, Merano, Portogruaro, Aversa, Caltagirone, Matera, Caltanissetta, Siena, Roma, con modalità organizzative differenti. Altri servizi, come Trento, Arezzo, Venezia, Mestre, Verona stanno pensando di realizzazione questo progetto, anche se al momento hanno ancora le porte chiuse.
I reparti psichiatrici “Open door” che adottano il “No restraint method” come abbiamo detto, operano senza ricorrere alla contenzione meccanica e tenendo le porte aperte. Nella pratica clinica in alcuni casi possono verificarsi situazioni talmente urgenti nelle quali si rende necessario intervenire anche con un contenimento fisico del paziente (di fatto queste situazioni si creano per il 90% dei casi all’inizio del ricovero). La procedura da utilizzare in queste situazioni è quella dell’ holding.
L’ art. 54 del Codice Penale recita che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo” . In tutti gli altri casi l’uso di metodi violenti in psichiatria può essere considerata come una forma di maltrattamento e di tortura che produce inevitabilmente altrettanta violenza nei pazienti .
La verifica basata sull’evidenza dimostra come nei reparti dove si pratica il No restraint le aggressioni fisiche rappresentano una ben più rara evenienza.
Nessuno può sensatamente sostenere che legare una persona al letto rappresenti una misura terapeutica. Toresini afferma che la chiave di ogni successo terapeutico sta nella capacità di stabilire una relazione positiva con il paziente ed è proprio “l’alleanza terapeutica” il veicolo principale della relazione . Difficile pensare che una persona, ai quali abbiamo legato mani e piedi, si possa alleare con noi. La dimensione terapeutica quindi rappresenta l’unica garanzia di miglioramento delle condizione del paziente e di conseguenza una strategia per una possibile diminuzione delle dosi farmacologiche .
Pullia afferma che sicuramente è molto più facile legare il paziente piuttosto che utilizzare strategie di contenimento basate sulla relazione e tecniche non violente di intervento sulla crisi. E’ molto più facile chiudere le porte dell’SPDC piuttosto che convincere un paziente a non allontanarsi, è molto più facile prorogare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio) piuttosto che convincere un paziente ad accettare le cure in regime volontario. Certamente, la gestione di un paziente aggressivo senza strumenti di contenzione fisica è senza dubbio più complessa, questo però rappresenta l’unico modo per stabilire una compliance sulla quale innestare la nascita di un processo terapeutico .
Da una indagine effettuata dall’SPDC di Mantova tra il 1980 e il 1990, per capire quali fossero le situazioni vissute dal personale come “allarmanti” e che successivamente hanno dato come risultato la coercizione del paziente, è emerso che: al primo posto veniva registrata l’aggressività auto ed eterodiretta e al secondo posto la grave agitazione psicomotoria .
Evans in uno studio descrive quali sono i motivi per i quali maggiormente gli operatori sanitari ricorrono alla contenzione: garantire la sicurezza, controllare l’agitazione, l’aggressività e alcuni comportamenti del paziente, prevenire il vagare e dare sostegno fisico al malato .
In acuzia, infatti, possono verificarsi episodi di violenza e di aggressività, verbale e/o fisica contro la proprietà, contro sé stessi o gli altri, episodi che possono essere espressione di tratti caratteriali o un modo bizzarro e distorto di presentare specifici bisogni da parte di soggetti fortemente disturbati.
Il lavoro del personale di reparto consiste nel cercare di prevenire il più possibile tali dimostrazioni di aggressività eccessive, anche permettendone l’espressione entro determinati limiti per evitare il manifestarsi di forme di distruttività auto–eterodiretta, che possono verificarsi in un contesto di prevedibilità o in un contesto di emergenza che coglie alla sprovvista.
E’ ormai accettato dall’opinione scientifica che gli operatori dovrebbero essere sottoposti a dei corsi di formazione specialistici per la prevenzione, gestione delle emergenze psichiatriche e rielaborazione delle emozioni personali provate durante i momenti di confusione generale .
Barelli sottolinea l’importanza di potersi avvalere di un modello comune per identificare oggettivamente la gravità e la complessità del paziente .
Barelli identifica come fattori di rischio intrinseci alla persona che può esprimere forme potenziali di aggressività
• la schizofrenia;
• ridotta tolleranza alle frustrazioni;
• confusione mentale;
• delirio e/o allucinazioni;
• aggressioni recenti;
• storia di comportamenti violenti;
• conflittualità con altri pazienti;
• TSO;
• impreparazione del personale;
• misure restrittive costanti;
• atteggiamento aggressivo del personale.
Secondo l’autore, per ogni paziente occorre valutare la presenza o meno di tali requisiti, espressione di possibili “campanelli d’allarme”, che, se presenti, possono aumentare il livello di complessità nella gestione dello stesso .
Anche la HoNOS ha identificato dei criteri di complessità, che sono
• pensieri o comportamenti deliberatamente autolesivi con rischio di suicidio (al momento della valutazione);
• comportamenti aggressivi, iperattivi, distruttivi e agitati;
• dipendenza da alcol o droghe;
• disorganizzazione di pensiero e disorientamento;
• presenza di problemi organici;
• presenza di effetti collaterali somatici da farmaci;
• presenza di allucinazioni o deliri;
• umore disforico;
• disponibilità e possibilità dei familiari a collaborare all’assistenza;
• capacità del paziente di collaborare all’assistenza .
Uno degli strumenti che mira a valutare il grado di complessità del paziente e il livello di collaborazione con gli operatori del reparto è la scala detta di “Gravosità” all’interno della scheda HoNOS (allegato 2).
La compilazione va effettuata sulla base di tutte le informazioni disponibili, quelle mancanti possono essere valutate successivamente in équipe. La scala è predisposta per sei compilazioni da eseguire ogni tre giorni. Per ciascuna compilazione, occorre fare una croce sul livello corrispondente alla condizione del paziente, verso l’alto (0= problemi assenti) o verso il basso (4=problemi molto gravi) a seconda che la complessità sia più o meno alta. In un reparto quale può essere l’SPDC si suggerisce di iniziare la prima valutazione con scala di “Gravosità” in seconda o terza giornata.
Anche i programmi per limitare l’uso della contenzione si basano prevalentemente sulla formazione del personale, questo per favorire cambiamenti culturali e organizzativi .
Nei corsi di formazione vengono affrontati diversi temi: l’impatto della contenzione fisica sul paziente e sul personale, i diritti e l’autonomia degli utenti, aspetti etici della contenzione fisica, aspetti legali, pericoli ed esiti avversi, problemi comportamentali specifici tra cui l’agitazione, il rischio di caduta e i metodi alternativi alla contenzione.
Nello studio sperimentale condotto da Infantino e Musingo viene comparato lo staff che ha ricevuto una formazione riguardo gli interventi verbali e la relazione terapeutica efficace da offrire ai pazienti in pre-eccitamento, rispetto allo staff non formato da specifici corsi. Nel periodo di riferimento considerato dallo studio (due anni), è emerso che solo una persona su trentuno tra coloro che avevano ricevuto formazione era stata aggredita, non riportando, tra l’altro, danni gravi. Dall’altra parte invece, all’ interno dello staff che non aveva ricevuto opportuna formazione, furono aggredite ventiquattro persone su sessantacinque, di cui 19 hanno riportato gravi lesioni.
I risultati di questo studio randomizzato sono stati confermati da altri successivi. Uno studio randomizzato condotto da Evans ha valutato l’efficacia di un corso di formazione per il personale sanitario e della consulenza di un infermiere specializzato in psichiatria rispetto al solo corso di formazione e a nessun intervento.
Con il corso di formazione e la consulenza si riduceva l’uso della contenzione del 56% in 12 mesi; il corso da solo invece riduceva l’uso della contenzione del 23%.
Markwell ha proposto uno studio per dimostrare l’utilità dell’uso di metodi alternativi alla contenzione per prevenire e contrastare gli episodi di violenza da parte dei pazienti. Lo studio si poneva come obiettivo quello di ridurre l’uso della contenzione fisica all’interno del reparto. Gli operatori di un reparto di psichiatria dell’ospedale di Neperville hanno costituito un gruppo di lavoro (composto da infermieri, psichiatri, direttore del reparto e un rappresentante dei pazienti) con lo scopo di ideare strategie di intervento rivolte alla riduzione e prevenzione dell’utilizzo della contenzione fisica nei confronti dei pazienti psichiatrici agitati e/o violenti. Prima dell’inizio del progetto (circa sei mesi prima) il team aveva riscontrato una media di pazienti contenuti nell’Ospedale considerato del 3.45%. Già dopo due anni si è evidenziato una riduzione dell’utilizzo della contenzione fisica del 51% .
Non legare e operare con la porta aperta può certamente esporre al rischio obiettivo che qualche paziente inevitabilmente si allontani senza aver concordato l’uscita con gli operatori. Toresini afferma che nella sua esperienza, nel 90% dei casi, i pazienti che sanno che per un motivo o per l’altro (o in base ad una negoziazione serrata o in base a documentazione di avvenuto TSO) non è di fatto consentito loro allontanarsi senza consenso dal reparto, alla fine ci rinunciano quasi sempre, più o meno di buon grado . Nell’SPDC di Merano per esempio vengono messe in atto determinate procedure, attenzioni, accorgimenti e questo fa si che gli allontanamenti non siano più frequenti che negli SPDC a porte chiuse. Lo studio condotto in questo elaborato sui reparti psichiatrici a “porte aperte” in Italia, supporta questa ipotesi. Solo l’ 8% delle risposte ottenute attraverso interviste o questionario (alla domanda era possibile dare più di una risposta) evidenzia che lavorare con le porte aperte favorisce gli allontanamenti. Il personale sanitario, in base alla propria esperienza concreta in tali reparti, valorizza invece gli aspetti positivi: il 40% è convinto che lavorare con le porte aperte favorisca l’auto-responsabilizzazione degli utenti e la negoziazione. Il 52%, acquisendo a pieno l’insegnamento di fondo di Basaglia che “la libertà è terapeutica”, ritiene che, con le porte aperte, aumenta il livello di collaborazione degli utenti e diminuiscono gli agiti aggressivi.
E’ bene sottolineare che il “No restraint” e la porta aperta in nessun modo rappresentano un disinteresse da parte del personale a capire la sofferenza di chi fa fatica a rendersi conto di aver bisogno di cure, ma viceversa rappresenta una ragione in più per istaurare una relazione terapeutica con l’utente, “costringe e ci si auto-costringe” a stare con il paziente.
Toresini afferma che il percorso di “no restraint” e porte aperte inizia dal far sì che un operatore a rotazione stia nei “paraggi” della porta d’uscita, un passaggio che può sembrare contraddittorio (conferma il ruolo “custodialistico” del personale psichiatrico) ma che invece finisce per assegnare a questo luogo un ruolo “terapeutico” in quanto proprio sulla porta si crea un clima di negoziazione e di aggregazione continua .
La negoziazione, è lo strumento che l’infermiere può usare per tentare di ottenere la collaborazione del malato, senza avere nei suoi confronti un atteggiamento impositivo, paternalistico o comunque squalificante. Essa, consente di instaurare una relazione positiva, terapeuticamente ed eticamente efficace. La negoziazione, parte dalla disponibilità dell’infermiere a lasciare emergere, ascoltare ed accogliere le aspettative del malato. Si distende inoltre, in un confronto tranquillo tra ciò che l’infermiere può offrire terapeuticamente, nel tentativo di trovare un’area di sovrapposizione e di convergenza, e la richiesta e le aspettative dell’utente.
Attraverso la capacità di negoziare, si gioca la possibilità di costruire una buona “alleanza terapeutica” che consente il coinvolgimento e la collaborazione tra malato ed infermiere per un progetto comune.
Sulla porta si ascolta, si rassicura, si instaurano delle relazioni d’aiuto con il paziente, si parla dell’uscire, delle motivazioni di ciascuno per la quale è importante rimanere in un luogo di cura, si innescano talvolta delle comunicazioni di tipo ironico, a volte si legge insieme una rivista o si parla di sport o di musica. Il paziente insomma tiene in “ostaggio”, come si diceva in apertura, la persona che sta sulla porta, che è costretta, a volte anche con un po’ di cuore in gola, ad accettare e mantenere aperta la relazione con l’utente, evitando che il proprio lavoro si riduca ad espletare solo pratiche burocratiche.
La porta chiusa è certamente oltre ad una barriera fisica, un messaggio di barriera relazionale e terapeutica che rinforza stereotipi di pericolosità. Viceversa riuscire a tenere la porta aperta attraverso un sensato sistema di alleanze, con responsabilità, attraverso una scelta di tutti gli operatori, rappresenta un riconoscimento dei diritti del cittadino-utente ed un indicatore di buona professionalità .
invece io sono d'accordo con Davis.. caro amico miè è ora che i vostri centri abbiano una chiusura definitiva ma l'errore non sta nel oggi sta a monte io sto conducendo una ricerca molto forte e ben presto di cose ne verranno fuori e troverò prove per dimostrare tutto questo .
RispondiEliminasaluti
sb