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domenica 30 agosto 2009

Io scrivo da dio


Oggi non voglio postare nulla che riguarda il diritto ambientale.
Oggi mi prendo una piccola pausa per condividere con voi un articolo che mi è piaciuto molto.
Perchè scritto da dio.
Da un Giorgio Faletti coinvolgente che, secondo me a ragione, ridicolizza, dopo averla fatta tatticamente gonfiare un po', una querelle estiva basata sul nulla, e nata dalla pedanteria saccente di persone che, evidentemente, non sanno come meglio impiegare il loro tempo.
Non aggiungo altro per non "rovinare" il piacere della lettura a chi non avesse ancora letto "Scusate se prendo fate per topolini"...

E dunque, eccomi qui. Trascinato sul banco degli imputati da diversi quotidiani e settimanali per il linguaggio del mio ultimo romanzo, Io sono Dio .
O meglio, per cinqute frasi che ho utilizzato nei dialoghi fra i personaggi che, ricordo a tutti, sono americani.
Queste frasi non sono passate invano sotto la lente di due signore. Che non hanno esitato a puntare il dito accusatore, scrivendo a blog e fornendo la loro consulenza per acconci articoli di denuncia.
Con un briciolo di orgoglio premetto che, se a un romanzo giallo con una trama, dei personaggi, un necessario coinvolgimento del lettore, l'unico appunto che può essere mosso è l'uso di cinque frasi, giudico il risultato estremamente positivo. Come i pareri della critica e dei lettori hanno confermato.
Le persone che mi accusano sono due signore che hanno un blasone di tutto rispetto.
Si tratta di Franca Cavagnoli, traduttrice di ben tre premi Nobel, laureata in Questo e Quello e insegnante di Quell'altro e Altro ancora e Eleonora Andretta che può vantare lo stesso tipo di retroterra culturale con il ruolo di esaminatrice per l'ammissione a Cambridge come ciliegina sulla torta.

Devo dire che ho inizialmente osservato con un certo divertimento il nascere di questa polemica balneare e non ho ritenuto opportuno disturbare queste due signore mentre si godevano i loro cinque minuti di popolarità.
Ma ora che la polemica si è spostata dalle mie scelte letterarie alla mia onestà di essere umano, penso che anche la difesa abbia diritto a far sentire la sua timida voce. Per prima cosa vediamo le cinque frasi incriminate.
«Non girare intorno al cespuglio». In Inglese, per esortare una persona che sta tergiversando si dice: «Don't beat around the bush», frase idiomatica che nella traduzione letterale diventa esattamente quella che ho utilizzato io. Per quel che mi riguarda la frase raggiunge benissimo lo scopo che si prefigge e credo che un autore, se vuole fare girare la gente intorno al cespuglio invece che fargli menare il can per l'aia, sia quantomeno libero di farlo.
«Pensavo che una ventina di grandi vi avrebbero fatto comodo». Nel gergo dei bassifondi i biglietti da mille dollari vengono chiamati «grands». Forse se avessi utilizzato il termine «verdoni» niente sarebbe successo, perché è una parola ormai acquisita nel linguaggio italiano, dimenticando che nasce dal fatto che i dollari sono verdi e che dunque in Italia non dovrebbe avere significato alcuno.
«Non te ne devo una, ma mille». Secondo la Pubblica Accusa il concetto per avere un senso dovrebbe essere espresso con la frase «Ti devo un favore grosso come una casa». In Piemonte c'è un modo di dire: «Questa la puoi raccontare per una», che si usa ad esempio quando qualcuno esce vivo per miracolo da un incidente stradale. Potrei, volendo, essere accusato anche di «piemontesismo», ma allora temo sia nei guai pure Andrea Camilleri…
«La fata del dentino a te porta la marijuana». Lo so benissimo che da noi esiste il topolino e non la fata e di questo faccio pubblica ammenda. Tuttavia devo confessare di avere dei complici. Proprio l'altra sera, vedendo un film con Ben Affleck, Il diario di Jack, mi sono accorto che in un dialogo i protagonisti parlavano della fatina del dentino. Avvertirò i distributori italiani che la mannaia sta per abbattersi anche sul film. A meno che questo fatto non sia passato inosservato e dunque c'è da chiedersi maliziosamente perché.
«Smettere di sentirsi falene davanti a una candela». Questa è un piccolo personale orgoglio. Pur essendo depositario di un decoroso inglese, ignoravo del tutto l'espressione «Like mooths to flame» quindi questa espressione, che indica precarietà, è del tutto frutto della mia fantasia. A meno che non mi si voglia far credere che le falene italiane indossino perennemente una tuta d'amianto.
Ecco, tutto qui.
Questi sono i capi d'accusa.
Confesso di non riuscire a trattenere un sorriso e di sentirmi anche un poco stupido nell'aver avuto la necessità di rispondere a qualcosa che, onestamente, ha un leggero tocco di ridicolo.
Quello che mi ha spinto a farlo, come ho detto all'inizio, è che da questa risibile querelle estiva e premestruale si sia arrivati come sempre a ipotizzare un fantomatico scrittore fantasma che è il vero autore dei libri che pubblico a mio nome. Per carattere e per scelta ho sempre condotto la mia vita privata al di fuori dei «si dice» e dei «pare che», facendo il mio lavoro con onestà e nei limiti delle mie capacità, tenendomi lontano dai gossip e dai mezzucci di fortuna per agguantare al volo un successo passeggero.
Ho corso dei rischi quando avrei potuto restare a coltivare un orticello che nel corso del tempo avrebbe dato ortaggi sempre più avvizziti. Questo qualcuno può chiamarlo incoscienza ma io, nel mio piccolo lessico provinciale, mi ostino a chiamarlo coraggio.
Forse non sono e non sarò mai un grande scrittore ma ho la fortuna di scrivere storie che appassionano dei lettori e di essere il solo responsabile di quello che faccio, disposto a riscuotere i meriti e ad accollarmene i demeriti. Utilizzando sempre e ancora il coraggio e la determinazione di cui parlavo prima.

A questo punto tuttavia, essendo anche un essere umano, concedetemi, una breve risposta alle mie due amiche pluriblasonate. Non ho motivo di dubitare del valore della signora Franca Cavagnoli come traduttrice. Ma il fatto che si traducano dei Premi Nobel a volte può essere fuorviante e indurre a facili entusiasmi, che andrebbero tenuti a bada. Non credo che il barista di Del Piero nel tempo si sia convinto di saper tirare le punizioni anche lui. Sul fatto poi che usare quelle frasi sarebbe come tradurre «L'ultima cena», che in inglese si dice «The last supper» con il termine «L'ultima zuppa», suvvia signora, mi stupisco di lei. Anche la mia povera mamma, a forza di andare al supermercato e trovarsi sugli scaffali dei barattoli di Campbell, sapeva che in inglese la zuppa si chiama soup.
Ricordo invece alla signora Andretta, di certo padrona di un inglese migliore del mio, che la lingua italiana è piena di modi di dire mutuati da lingue straniere ormai talmente parte del linguaggio che nessuno ci fa più caso. Penso di essere solo responsabile, nel caso, di averne introdotti dei nuovi. Ho visto la sua foto sul settimanale da cui ha lanciato la sua polemica e devo dire che sono rimasto colpito dal suo viso assorto mentre regge fra le mani il mio libro.
Pensare che una signora così piacente e così colta abbia trascurato la sua vita privata per esaminare i miei discutibili scritti e impiegato parte del suo tempo per scrivere al blog di Beppe Severgnini mi onora. E mi rende nello stesso tempo invidioso, perché con me il tempo è così avaro che me ne resta pochissimo, impegnato come sono nel mio lavoro, che è scrivere personalmente i miei romanzi.

In questo mondo barbaro e bizantino, ognuno esibisce il blasone che ha, ricco o povero che sia. Il cronista del quotidiano che ha sollevato il vespaio conclude il suo pezzo con un inquietante interrogativo, con un afflato molto più cabarettistico che letterario. Prendendo a prestito una canzone di Carosone, dopo avermi rivolto l'appunto «tu vuo' fa l'americano» mi chiede «sient'a me chi t'o fa fà»? Mi sia concesso terra terra di rispondere con un'altra domanda: 12 milioni di copie vendute solo in Italia possono essere considerate un motivo esauriente? E credo che questo sia in definitiva il mio vero crimine.

In questo paese dove il successo è considerato una colpa è estremamente facile trovarsi di fronte a dei censori animati da uno spirito che gli inglesi indicano con la parola envy che, come possono testimoniare le mie amiche traduttrici, ha un significato inequivocabile. Si traduce in italiano con una semplice parola: invidia.

1 commento:

  1. Caro Giorgio (Faletti), sei un grande. Non trovo parola più adatta a definirti.
    HO sempre ammirato l'arguzia e l'intelligenza e questo tuo articolo ne è pieno dalla prima all'ultima virgola.
    Sei veramente un grande alla faccia di chi ti critica sul nulla.
    Finora non mi era mai capitato di leggere un tuo romanzo Beh, è ora di colmare questa lacuna: oggi esco e me ne vado a comprare uno. Aggiungimi ai tuoi 12 milioni di lettori italiani.
    Paola.

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