“[Erano gli anni dell’applicazione della
Legge Basaglia.] Ero decisamente
attratta dalle storie di superamento istituzionale che venivano trasmesse nella
tv di stato, rese pubbliche da psichiatri, sociologi e cittadini impegnati a
mettere in evidenza la decadenza di quella cultura che aveva tracciato la linea
di confine tra la società dei sani e quella dei folli, fra il normale e il
patologico.” ‒ Cinzia Migani
Il primo
settembre 2018 è stato pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore un saggio frutto di
trent’anni di ricerca: “Memorie di
Trasformazione. Storie da Manicomio”.
La pubblicazione è suddivisa in tre
sezioni: “Storia del manicomio di Bologna nell’ultimo
trentennio dell’Ottocento” che presenta gli studi sopracitati dell’autrice
coadiuvata dal professor Ferruccio
Giacanelli; “Prime soluzioni al
sovraffollamento dei manicomi” che presenta la pazzia ai tempi del positivismo
con schede di approfondimento di Cesare
Moreno, Maria Augusta Nicoli ed Andrea Parma; “Storie da manicomio” che racconta le vite di tre persone che hanno
vissuto fin troppi anni in questi istituti.
L’autrice, Cinzia Migani, si occupa
dal 1990 di progett-azione sociale con particolare attenzione alle reti di volontariato contro
l’esclusione sociale.
È stata responsabile dell’Area Salute
Mentale dell’Istituzione G.F. Minguzzi della Provincia di Bologna dal 1998 al 2000, successivamente
e sino al 2009 ha ricoperto la posizione di Responsabile dell’Area Ricerca ed
Innovazione Sociale e Responsabile di “Aneka. Servizi per il benessere a
scuola”. Dal 2010 collabora con A.S.Vo che gestisce VolaBo, il centro di
servizio della città metropolitana di Bologna, in veste prima di coordinatrice e poi di direttora di VolaBo.
Ha curato la pubblicazione di libri
sul disagio scolastico e sulla salute mentale per la Carocci Editore e dal 2008 collabora con la
Negretto Editore per la quale ha portato a termine lavori come “Follia gentile. Dal manicomio alla salute
mentale”, “Il Teatro illimitato.
Progetti di Cultura e Salute mentale”, “Dire
Fare Donare” ed il progetto di cui
parleremo in questa intervista “Memorie
di Trasformazione. Storie da Manicomio”.
A.M.:
Buongiorno Cinzia, sono lieta di poter tracciare con te una linea guida di
questa nuova pubblicazione edita dalla casa editrice mantovana Negretto
Editore. “Memorie di Trasformazione. Storie da Manicomio” è disponibile nelle
librerie dal primo settembre. Ha ricevuto una buona accoglienza dai tuoi
colleghi?
Cinzia Migani: Contrariamente a quanto pensassi sin dal primo momento in cui è uscita
la notizia che stava per essere pubblicato il libro “Memorie di Trasformazione.
Storie da Manicomio” ho ricevuto richieste di informazioni: dichiarazione di
interesse alla lettura del libro. E dire che eravamo prossimi alle vacanze.
Alcune di queste persone fanno parte di gruppi fortemente interessate al tema
per motivi di lavoro, altre per motivi civici e per sostenere il diritto alla
cura delle persone con sofferenze mentali. Ma diverse sono state anche le
dichiarazioni di interesse da parte di persone appartenenti alla mia cerchia di
parenti, amici o persone prossime a me per le ragioni più diverse. Tre persone,
decisamente diverse una dall’altra, più di altre mi hanno sorpreso
positivamente per la passione usata nel dirmi che stavano leggendo con
interesse il testo. Sento ancora brividi di emozione ripensando a come mi hanno
detto che stavano leggendo il libro, perché i contenuti delle loro riflessioni
mi hanno permesso di comprendere che forse era una lettura adatta anche per
coloro che non sono esperti del settore. Si tratta di mia nipote che per la
prima volta ha dichiarato interesse verso un mio scritto; di un noto psichiatra
fortemente impegnato nel qui ed ora, attento a promuovere organizzazioni capaci
di agire percorsi di salute individuali e azioni per sviluppare comunità
competenti e in salute mentale. Dopo averlo letto, mi ha scritto: “Appena ricevuto, l'ho sorvolato come mi invitavi a
fare, ma non ho resistito a perdermi nelle pagine, dense di storia e di storie.
Cosa ancora più preziosa per chi come me crede non sia possibile alcuna
innovazione, alcun progresso, senza una profonda conoscenza delle traiettorie
individuali e collettive che ci hanno condotto al momento attuale.” Ed infine, di una esperta di sviluppo di reti
sociali così esperta da poter essere identificata, nonostante la giovane età, con
l’archetipo della rete. Con lei condivido alcuni percorsi di lavoro nel
volontariato. Mi ha scritto che aveva letto il libro in vacanza e che il libro
l’aveva emozionata e arricchita tantissimo.
A.M.:
Com’è nato il tuo interesse per il Manicomio di Bologna?
Cinzia Migani: Il mio interesse per le istituzioni totali nasce negli anni del liceo.
Gli anni successivi all’applicazione della legge 13
maggio 1978, n. 180, in tema di
"Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. La
cosiddetta Legge Basaglia. Ero decisamente attratta dalle storie di superamento
istituzionale che venivano trasmesse nella tv di stato, rese pubbliche da
psichiatri, sociologi e cittadini impegnati a mettere in evidenza la decadenza
di quella cultura che aveva tracciato la linea di confine tra la società dei
sani e quella dei folli, fra il normale e il patologico. Ma erano anche gli
anni in cui alcuni famigliari denunciavano che erano stati abbandonati con i
loro cari dimessi di forza dai manicomi o che non sapevano a chi chiedere aiuto
quando un proprio caro stava male. Troppe cose che stavano accadendo accanto a
me continuavano a risuonarmi. Diverse le domande senza risposta o gli interrogativi
alimentati sia da chi era a favore sia da chi metteva in discussione la
riforma. Chi aveva ragione? C’era una ragione più ragionevole delle altre?
Una tarda serata di un mese invernale del 1980
stavo guardando in televisione un servizio di
Sergio Zavoli. Ero incollata. Denunciava con vigore il confine assurdo che si
era instaurato fra la città dei cosiddetti sani e quella dei malati di mente. Ricordo
ancora mia madre che si alzò dal letto e mi intimò di andare a letto perché il
giorno dopo dovevo andare a scuola. Aggiunse
che quello che stavo vedendo in televisione avrebbe popolato di incubi il mio
sonno. Non l’ascoltai e a quel punto lei
scelse di rimanere vicino a me. Alcune esperienze di sofferenza raccontate
dalle persone intervistate le sembravano rimarcare la distanza fra chi sta bene
e chi sta male. Non sapeva o non voleva sapere che alcune testimonianze non
erano così lontane da alcune sue esperienze di vita: lei aveva provato sulla
pelle cosa significasse passare da espansioni vitali a fatica di vivere.
Non le dissi che non erano le
immagini a turbarmi, ma le ragioni per le quali le persone finivano lì. Compresi
in quel momento perché si evitava di approfondire l’argomento quando qualcuno
diceva che il proprio familiare “era stato ricoverato a Imola”. All’indomani
andai a scuola e iniziai a fare una serie di domande alla mia professoressa di
filosofia, la professoressa Isa Valbonesi. Mi consigliò di leggere un libro che
ancora conservo: “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e
attività umane” a cura di Aldo Gargani del 1979. La mia ricerca è continuata anche
all’università. Diversi gli esami messi in programma per approfondire
le tematiche del rapporto esistente fra normale e patologico, fra gli scritti
più frequentati quelli di Husserl, Bergson, Minkowski e Merleau-Ponty. L’epilogo
di quella fase e l’inizio di un modo altro di affrontare la questione avvenne
qualche mese dopo l’ottenimento della laurea in filosofia. Grazie a un
suggerimento di un compagno di corso seppi che a Bologna esisteva il Centro di
studio e di documentazione della storia della psichiatria e della emarginazione
sociale, oggi Istituzione G. F. Minguzzi della Città metropolitana di Bologna.
Il Centro era locato all’interno delle mura manicomiali e in quegli anni aveva
posto fra i temi centrali da indagare la storia dell’istituto manicomiale di
Bologna. Ed è così che è nato il mio rapporto con Giacanelli, con gli archivi
manicomiali, con gli altri studiosi del Centro (in particolare Augusta Nicoli e
Santa Iachini), le persone che vivevano ancora dentro l’ospedale psichiatrico e
i loro amici e familiari. Ci capitava spesso di condividere con loro i luoghi
di ristoro: il bar e la mensa dell’ospedale psichiatrico. Luoghi la cui
convivenza era semplificata da persone come Adelfina, che facevano ponte fra
noi del Centro, gli infermieri e i pazienti. Passavo ore a leggere e schedare
documenti di archivio, o a discutere con Giacanelli e Iachini su come
articolare la ricostruzione storica del manicomio di Bologna e delle persone
che vivevano dentro, e alla cultura scientifica del tempo.
A.M.:
Il 13 maggio 2018 c’è stato il quarantennale della Legge Basaglia che ha
decretato la chiusura dei manicomi. Qual è, dunque, l’intento di “Memorie di
Trasformazione”? Oltre all‘aver pubblicato un eccellente saggio che documenta
la nascita dei manicomi sino alla loro chiusura, quale messaggio hai veicolato
nel libro?
Cinzia Migani: Grazie per la sua gradita valutazione, da tempo ho imparato ad
apprezzare i suoi interventi seguendo la pagina web di Oubliette Magazine. Il
messaggio principale che ho voluto veicolare ripartendo da ricerche del passato
sul passato della storia manicomiale ricostruito con Ferruccio Giacanelli è
stato quello di richiamare l’attenzione su un mondo in trasformazione che rischia
di intraprendere derive pericolose, quelle che portano a dividere le persone
creando barriere culturali e a costruire muri di separazione.
A.M.:
Nella prima sezione del libro, “Storia del manicomio di Bologna nell’ultimo
trentennio dell’Ottocento”, ed esattamente nel quinto capitolo “La cultura
psichiatrica all’interno del manicomio” tracci alcune citazioni d Francesco
Roncati. Troviamo tratto da “Ragioni e modi di costruzione ed ordinamento del
Manicomio di Bologna” del 1891: “[…] un
Manicomio bene costruito ed ordinato forma già per sé uno strumento massimo di
cura della pazzia.”.
Cinzia Migani: Era opinione diffusa nella seconda metà dell’800 che chi soffrisse di
disagio mentale potesse trovare riparo nel manicomio, un luogo caratterizzato
dallo svolgersi di una vita ordinata, da una alimentazione curata e separata
dal mondo, dalle persone e dalle loro contraddizioni. Roncati interpretava con
vigore quella credenza. Lui stesso scelse di rinchiudersi in manicomio, visto
che passò la vita fra quelle mura. Di robusta formazione igienista, attento
alle condizioni ambientali in cui viveva la maggior parte della popolazione era
fortemente convinto che il ricovero in manicomio rappresentasse la soluzione
più adeguata per chi perdeva la ragione. Credeva infatti che a causare molte
forme di pazzia fossero la malnutrizione e le pessime condizioni igieniche in
cui erano costretti a vivere le persone. Questa credenza, che trovava riscontro negli
ambienti accademici e amministrativi dedicati alla questione igienica in città,
lo portò ad investire tutte le sue risorse e competenze sulla tecnica
manicomiale e sulla gestione degli spazi e delle risorse umane che lo
popolavano, anticipando così l’odierna deriva aziendalistica. Passò ore a
studiare come garantire ordine e igiene, a ideare stratagemmi per occultare lo
sguardo delle persone cosiddette “sane” da quelle dei malati e viceversa, a
studiare diete alimentari, a imporre regole per impedire al malato di scappare
o di disturbare la quiete. Passò ore in buona sostanza a occuparsi del corpo
del malato, dimenticandosi di occuparsi della sua “testa”.
A.M.:
Vorrei riprendere una tua accattivante domanda per riuscire ad aver una
spiegazione sul pericolo che si correva in Italia ed in Europa in quel periodo.
“Quale virus contagiò la popolazione
italiana in quegli anni, visto che mano a mano che passavano i giorni le
persone sembravano essere sempre più insane di mente?”
Cinzia Migani: L’unico vero pericolo che corse in quegli anni la popolazione italiana
fu quello di soccombere alle disuguaglianze economiche, all’esigenza di mantenere
l’ordine sociale e alla volontà di potere degli specialisti.
A.M.:
Cesare Moreno, Maria Augusta Nicoli ed Andrea Parma partecipano nella seconda
sezione del saggio, “Prime soluzioni al sovraffollamento dei manicomi”, con
schede di approfondimento dei temi trattati. Quand’è nata la tua collaborazione
con loro?
Cinzia Migani: L’incontro è avvenuto in contesti diversi e per ragioni diverse. Cesare
Moreno è parte di una fase molto importante della mia vita professionale:
quella centrata in cui mi sono occupata con intensità di benessere a scuola con
Valentina Vivoli, che ha curato la postfazione del libro. Un periodo che trova
la sua origine a seguito di un episodio complesso registratosi in un famoso
liceo classico di Bologna, un episodio descritto nel libro Dal disagio
scolastico alla promozione del benessere pubblicato nel 2005. Cesare ci permise
di cogliere il valore dell’esperienza pedagogica che punta sul protagonismo dei
ragazzi valorizzando le risorse della comunità o costruendo le condizioni
perché gemmino possibilità di contesto là dove ci sono solo fatiche,
deprivazioni e risorse. Ci fece toccare con mano come molti ragazzi avevano
deviato il proprio percorso di vita destinato al fallimento, attraverso il
sostegno di “maestri di strada”, “volontari” e in senso lato tutti coloro che
volevano investire sull’attivazione di percorsi di resilienza ed empowerment
sociale.
Con Augusta ho condiviso anni intensissimi fra
il 1990 e il 2001. Insieme a Gino Pellegrini (scenografo e pittore) e la sua
compagna e preziosa collaboratrice Osvalda Clorari, a tecnici della salute
mentale, uomini e donne di cultura e istituzioni abbiamo ideato il Progetto
Vita da Pazzi. Mostre film e dibattiti sulla salute mentale per contrastare il
pregiudizio delle persone che ancora aleggiava su chi soffriva di disagio
mentale, per avvicinare le persone alle tematiche della salute mentale e ai
servizi, per avvicinare il mondo del volontariato e civile ai servizi e alle
associazioni di familiari o per favorire lo sviluppo dei gruppi di auto-aiuto. E
lei che mi ha portato a interessarmi di psicologia di comunità e che mi
consentito di arricchire la mia cassetta degli attrezzi per occuparmi di
sociale.
L’incontro con Andrea Parma è avvenuto
all’interno del progetto Teatro e Salute mentale promosso dall’Istituzione G. F.
Minguzzi della Città metropolitana di Bologna e la richiesta di un contributo è
stata casuale. Parlando del testo che stavo scrivendo mi ha detto che era
interessato alla storia dei luoghi manicomiali e che stava facendo una ricerca
su un manicomio delle Marche. Mi è sembrato un segno del destino per mantenere
viva la fiammella che anima la memoria attiva sulle ragioni per le quali si è lottato
a favore della chiusura dei manicomi e per non dimenticare che le derive sono
sempre possibili.
A.M.:
Nella terza sezione del saggio, “Storie da Manicomio”, hai scelto di parlare di
tre persone che hanno vissuto in manicomio: Filippo Manservisi, Gaetano
Emiliani ed il piccolo Umberto Rossi. Perché proprio loro tre? E quanti nomi
hai visto sparire dagli archivi?
Cinzia Migani: Le tre testimonianze le ho scelte per la specificità della loro storia
e per i sentimenti e le emozioni che mi avevano attivato quando le ho rinvenute
in archivio. La storia di Filippo l’avevo incrociata ai tempi della
realizzazione di una dell’edizione della mostra Vita da Pazzi e discusso con Gino
e Osvalda che hanno curato la scenografia e l’allestimento di tutte le mostre
Vita da Pazzi. Il materiale rinvenuto nell’archivio sanitario del Manicomio di
Imola non era adatto per una esposizione scenografica. Continuai a cercare materiale.
Ne ho rintracciato così tanto negli archivi storici di Bologna che oggi si
potrebbe pensare una sezione espositiva solo per la sua storia. Ho ripreso in
mano la sua storia alcuni anni fa in concomitanza con la denuncia degli
scandali bancari e la lettura del testo di Marco Revelli, “Non ti riconosco”.
Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, che mette in evidenza gli scempi
ambientali e sociali compiuti in nome dello sviluppo. E ho capito che era ora
di raccontarla.
La storia di Gaetano mi ha accompagnato dal
primo momento che ho iniziato a occuparmi della storia del complesso manicomiale
di Imola. L’ho rinvenuta in archivio agli inizi degli anni ’90. In quegli anni
era vivacissimo il movimento di famigliari, volontari e cittadini a favore del
superamento manicomiale. Cittadini, come Marta Manuelli, avevano scelto di
rappresentare le istanze delle persone che erano state rinchiuse in manicomio
per decenni che cercavano di riappropriarsi della propria vita con il sostegno
del servizio ma non avevano nessun parente pronto a farsi carico di loro. Marta
si fece parte in causa nell’apertura dell’Associazione Cà del Vento, una casa che è stata aperta
per accogliere le persone dimesse dal Manicomi. Sono proprio loro, i residenti,
che decidevano ieri come oggi come gestire la casa, cosa mangiare, come gestire
il tempo. Differentemente dalle sorti dei residenti di Cà del Vento, Gaetano
era possidente e aveva famiglia. Ma né la sua famiglia né i medici né le
associazioni di famigliari o di volontariato coltivarono il sogno di ridargli
la libertà. Ed ha passato così più di 40 anni in manicomio. Fa male vedere che
prevalgono le annotazioni amministrative su quelle sanitarie nel suo fascicolo
sanitario.
Ed infine la storia di Umberto, il bambino
figlio della povertà. Questa storia è fortemente impressa nella mia mente e
guida ancora oggi il pensiero che anima alcune mie azioni a supporto di
progetti di contrasto contro l’esclusione sociale.
Ho scelto queste tre storie fra le tante
incontrate, esaminando a tappeto tutti i documenti di archivio presenti nel
titolo 7/4 dell’Archivio della provincia di Bologna e la corrispondenza della
Direzione e dei Pazienti del Manicomio di Bologna dal 1860 al 1907 nonché i
documenti sanitari dei due manicomi di Imola e le perizie cliniche. Alcune
storie le ho seguite negli anni, come quella di Luigi Veronesi. Il suo caso è
descritto in Storia da un manicomio. Vita e vicende di un birocciaio bolognese
del XIX secolo, saggio scritto con Di Diodoro, Ferrari, Giacanelli e Iachini
del 1997. La sua storia, caratterizzata
da 35 ricoveri in manicomio, susseguitasi tra il 1857 e il 1890, è
particolarmente interessante. Permette di seguire il periodo durante il quale
si susseguiranno importanti avvenimenti che porteranno alla nascita della
psichiatria bolognese ma anche il diverso comportamento degli amministratori
dell’epoca verso un “alcolista” con tendenze anarchiche. A seconda del periodo
gli effetti delle sue bevute saranno contenute in manicomio o in galera.
A.M.:
Hai in programma presentazioni per “Memorie di Trasformazione”?
Cinzia Migani: Recentemente, il 2 ottobre, ho presentato il libro presso la Biblioteca
comunale di Imola. Una scelta di cuore. Non poteva che iniziare a Imola il
ciclo della presentazione del libro. Il luogo dove ho fatto la mia prima
relazione pubblica sui temi di storia delle istituzioni manicomiali, nel 1992.
Ma anche il luogo che ha scelto di aprire con la presentazione del libro la
manifestazione di Oltre la siepe - La salute mentale è un diritto di tutti:
anche il tuo! Una manifestazione fatta e voluta da cittadini, volontari,
associazioni di familiari e utenti e operatori della salute e della cultura. Agli
inizi di novembre il libro sarà presentato a Bologna, e il 21 dicembre a
Taranto.
A.M.:
Come ti trovi con la casa editrice Negretto Editore? La consiglieresti?
Cinzia Migani: Sì, la mia opinione non è mutata da quanto dissi che consiglio questa
casa editrice in occasione dell’intervista che le ho rilasciato in occasione
della recente pubblicazione “Dire Fare Donare. La cultura del dono
nelle comunità in trasformazione”.
A.M.:
Salutiamoci con una citazione…
Cinzia Migani: “L'importante è che abbiamo dimostrato che l'impossibile può diventare
possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il
manicomio potesse essere distrutto. D'altronde, potrà accadere che i manicomi
torneranno ad essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in
tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra
maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a
condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L'importante è
un'altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille
volte: noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo
vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel
momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di
trasformazione difficile da recuperare.” ‒ Franco Basaglia in Conferenze
brasiliane, 1979
A.M.: Cinzia ti ringrazio vivamente per il
tempo che hai dedicato a questa nostra intervista. In chiusura invito i lettori
a prendere in mano “Memorie di Trasformazione” perché ritengo sia non solo un
saggio utile agli addetti ai lavori ma anche a coloro che promuovono un’azione
sociale per il rispetto dei diritti dell’essere umano. Saluto con le parole del
filosofo francese Montesquieu (La Brède, 18 gennaio 1689 – Parigi, 10 febbraio
1755): “Si chiudono alcuni matti in una
casa di salute, per dare a credere che quelli che stanno fuori sono savi” e
con una possibile risposta dello psichiatra Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo
1924 – Venezia, 29 agosto 1980): “Un
malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il
malato, prima di tutto, è una ‘persona’ e come tale deve essere considerata e
curata […] Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare
di essere persone”.
Written by
Alessia Mocci
Ufficio
Stampa Negretto Editore
Info
Sito
Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Acquista
“Memorie di trasformazione”
https://www.libreriauniversitaria.it/memorie-trasformazione-storie-manicomio-migani/libro/9788895967349
Comunicato
Stampa “Memorie di Trasformazione”
http://oubliettemagazine.com/2018/09/10/in-libreria-memorie-di-trasformazione-storie-da-manicomio-di-cinzia-migani-edito-da-negretto-editore/
Facebook
Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Sito Odori
Suoni Colori
http://www.odorisuonicolori.it/
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/10/16/intervista-di-alessia-mocci-a-cinzia-migani-autrice-del-saggio-memorie-di-trasformazione-storie-da-manicomio/
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