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domenica 10 giugno 2018

"Il silenzio del gatto" recensito da Ivano Mugnaini

Gli ingredienti di partenza sono accattivanti: il mistero e il fascino di uno degli esseri più misteriosi e sfuggenti, il gatto, posto a fianco a una delle passioni più essenziali e sguscianti, la curiosità umana, la volontà di comprendere, di andare oltre il velo, al di là della superficie.  

Il successo del romanzo di Roberta Garbaccio pubblicato da Guida editore nasce da questa idea, questo spunto che, tuttavia, ha radici che alla parola, oggetto della ricerca, riconducono, come in una ring composition.  

“Quella notte, mentre gli uomini dormivano, tutti i libri si aprirono per un istante alla stessa pagina – una pagina che nessun lettore aveva mai letto – e mostrarono la vera storia di Dio e dell’Universo. Ma la vide solo un gatto e se ne andò senza dir nulla.”  È questa la fonte, l'ispirazione: la proposizione di Fabrizio Caramagna, noto autore di aforismi. 


La scintilla fatta scoccare da Caramagna dà origine a luci sempre più intense, in un gioco di chiaroscuri con il mistero inestricabile del senso, l'origine e la direzione di questa “cosa” chiamata, vita, mondo, universo, destino... ognuno troverà la sua definizione a seconda delle proprie convinzioni e inclinazioni. 


Ciascuno troverà la formula giusta per poter dire a se stesso che “non c'è niente da capire” come cantavamo qualche anno fa sulle note di una canzone.  La musica non è cambiata e non cambierà. A meno che... non ci riveli tutto un gatto.  

La consapevolezza che la sola speranza di comprendere sia racchiusa nelle vibrisse frementi e beffarde di un animale che per sua natura tende a essere sfuggente ed enigmatico e quanto mai restio a dialogare con quel bipede strambo chiamato uomo che magari lui considera sostanzialmente e irrimediabilmente stupido, conferisce a questo romanzo un sapore specifico, un gusto agrodolce che genera un sorriso tenace. 


Si parla di oggetti, di cose. 

La lavatrice che campeggia ineludibile ed essenziale anche nella copertina, con quel nome altisonante da cinema anni Sessanta, “Splendor”, è anche una specie di macchina del tempo. 

La ricerca del mistero, l'indagine sociologica, la descrizione del graduale mutamento del modo di vita del nostro Paese, del divario Nord – Sud, della condizione femminile e di mille altri nodi e cardini, sono stati abbinati, con un escamotage, o forse solo con l'approccio istintivo ed efficace adottato dall'autrice, ad un elettrodomestico con cui abbiamo immensa familiarità ma che avrebbe lasciato a bocca aperta, ad esempio, i nostri nonni. E che comunque anche noi, uomini digitalizzati degli Anni Duemila, tutto sommato usiamo senza comprenderne affatto il funzionamento.  

Un po' come la vita. La utilizziamo. Ma le istruzioni sono scritte in giapponese. Con la traduzione in finlandese. Lo stesso accade con la dimensione cronologica, questo “fatto” di essere allo stesso tempo i nostri ricordi e i nostri sogni, il presente fatto di innumerevoli e cangianti passati e intessuto di ipotesi di futuro.  

Come osserva Chiara Zanetti nel comunicato stampa del libro “come suggerirebbe Lev Tolstoj, dietro ogni cortina famigliare sguazzano tensioni, relazioni complesse, incomprensioni, nodi intricatissimi e febbrili, che solo col tempo o – come in questo caso- con un appassionante viaggio nel tempo, possono trovare un minimo di risoluzione e cura; infatti, raggiunto questo climax, il romanzo lascia finalmente spazio a un percorso di formazione e di crescita, a una raggiunta consapevolezza di sé, che determinano un cambiamento di prospettiva”. 


Il fascino del libro, dunque, è adeguatamente “felino”. Ci parla del tempo ed è sempre sul punto di rivelarci una verità che non arriva.  Il finale è quanto mai aperto.  Si resta lì ad attendere un Godot che sappiamo non arriverà. Ma, se vogliamo essere coerenti, se non astuti, bisogna fare ricorso, noi bipedi limitati privi di vibrisse, alla sole coordinate certe che abbiamo a disposizione: gli occhi del gatto, fissi sull'oblò della lavatrice Splendor. 


Sembrano dirci che il solo mistero praticabile è quello della centrifuga che ci restituisce diverso, pulito, sebbene stropicciato, ciò che avevamo messo dentro, in un tempo che sembra essere racchiuso in pochi minuti ma che in fondo ci sfugge anche quello, non lo sappiamo quantificare. 

Sembrano chiederci se davvero abbiamo bisogno di comprendere di più di un meccanismo così semplice e così arcano. In fondo quella lavatrice dalla marca metaforica è di per sé un'astronave, o magari un semplice oggetto vintage che racchiude il passare delle epoche, il mutare della nostra vita e quello che resta identico, a dispetto di tutto.  


Ogni uomo è, tendenzialmente Ulisse, sembra ribadire la Garbaccio. Ma Penelope non aveva la lavatrice, e neppure i corsi di Pilates, la piscina a cui accompagnare i figli e mille altre insidie e meraviglie nella sua villetta bifamiliare di Itaca. Il romanzo è scritto con verve e humour. È filosofico nel solo modo possibile: con leggerezza attenta e di sostanza, senza pretese di verità assolute o di panacee.  


Gli occhi del gatto, alla fine, ci dicono qualcosa nell'atto di non dircela, con quello 
stesso loquace silenzio che è alla base del titolo e della sostanza del libro. Ci dicono che siamo fatti di un tempo che abbiamo inventato noi, topi che si sono costruiti una simpatica trappola, piuttosto micidiale, a dire il vero. Ma ci dicono anche che abbiamo la capacità  di sorridere, come anche i gatti sanno fare. 

Seppure di nascosto, lontano da sguardi indiscreti. Sappiamo sorridere nel momento in cui ricordiamo, o quando ci abbandoniamo al sogno, o semplicemente sonnecchiamo, con un occhio aperto, davanti ad una lavatrice che trasforma il mondo quel tanto che basta per darci la forza di ripartire e ci parla con un silenzio che contiene il mistero, la sua chiave e la volontà di non risolverlo mai.  



                 Ivano Mugnaini 

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