“Come ogni evoluzione
tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle immagini
sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al digitale ha
profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine fotografica – alcuni
vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti stessi si siano messi
a pensare i loro film a partire delle possibilità del digitale – ma ha anche
liberato delle potenze plastiche fin ad ora inaccessibili.” ‒ Luc Vancheri
Pubblicato nel 2007 dalla casa editrice francese Armand
Colin, “Cinema e pittura” è stato
diffuso in Italia il 30 giugno 2018 con la casa editrice Negretto Editore per
la collana editoriale Studi cinematografici, diretta dal prof. Alberto
Scandola, docente di Storia e Critica del Cinema presso l’Università di
Verona.
L’autore, Luc Vancheri,
è docente di Studi Cinematografici nel dipartimento di Cinema e Studi
Audiovisual presso l’Università Lumière di Lione.
Il saggio, con
progetto grafico di Ornella Ambrosio, si presenta in copertina con un
fotogramma del film del grande regista francese Jean-Luc Godard “Passion”
(1982) che presagisce la posizione avanguardistica del suo contenuto.
Suddiviso in quattro
capitoli, “Cinema e Pittura” è composto di tre parti fondamentali dedicate
alla questione dell’estetica, della poetica e di analisi ‒ plasmate dal
confronto fra l’immagine e l’arte ‒ che aprono lo sguardo verso la letteratura,
lo studio teorico e l’analisi filmica.
“Dando alla metafisica
il senso stesso della sua storia e quasi l’immagine del suo ribaltamento, il
nichilismo di Nietzsche ha lasciato aperta all’artista (l’artista-filosofo
chiamato ad essere il medico della civiltà) la possibilità di essere nel
pensiero così come nell’opera, anche se Heidegger si sente ancora troppo debole
per assumere «che davvero un dire poetico possa essere anche l’opera di un
pensiero». Poiché Nietzsche considera l’arte «il grande stimolante della vita»
(Af. 851, 1888) e il valore supremo, di questo privilegio costante dell’artista
rispetto alla vita permane l’affermazione di un regime del soggetto e dell’arte
che non può ridursi alle sole regole e maniere, e quasi lo sviluppo di
un’affermazione vitale dell’opera, vale a dire che essa è effettivamente
connessa agli stati fisici, agli stati creatori dell’artista.” ‒ “Cinema e Pittura”
Il Professor Luc
Vancheri si è mostrato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande
di presentazione dei concetti esposti sul saggio “Cinema e Pittura”.
L’intervista è stata redatta in francese con
traduzione in lingua italiana di Francesca Capasso.
A.M.: Professor
Vancheri sono lieta di presentarla ai lettori italiani con questa intervista.
Come prima domanda mi piacerebbe che ci raccontasse di com’è nata la passione
per il cinema, se da ragazzo o da adulto.
Luc Vancheri: Come
molte persone della mia generazione vengo dalla cinefilia, cioè un’epoca in cui
si scopre il cinema nelle cinemateche e nei cinema d’essai. Ad ogni modo,
quando iniziai a interessarmi al cinema, alla fine degli anni ’70, la
tradizione critica dei Cahiers du Cinéma e di Positif non è più sola, ma è accompagnata
ormai da una teorizzazione sul cinema influenzata dalle scienze umane. Dal lato
della critica, sono stato segnato dal pensiero di André Bazin e della nuova
guardia dei Cahiers che avrebbe poi formato la Nouvelle Vague (Godard e
Truffaut che sono stati dei critici estremamente brillanti, ma anche Rohmer e
Rivette). Tuttavia, sono stato particolarmente sensibile al momento politico
dei Cahiers dopo il maggio sessantotto e alla radicalità teorica di una critica
militante. Alla fine degli anni ‘70, quando Daney e Toubiana operano quello che
si chiama il ritorno al film, comincio a misurare la complessità del cinema
come fatto estetico e sociale. Sotto il profilo teorico, se in Francia, alla
fine degli anni ’60, la letteratura accademica sul cinema resta ancora
influenzata dalle opere-somma di Sadoul e Mitry, le cose cambiano all’inizio
degli anni ‘70 con i lavori ispirati dallo strutturalismo, dalla semiologia e
dalla psicanalisi. Vengo così influenzato da Christian Metz e i suoi lavori sul
linguaggio cinematografico (Il significante immaginario, 1977) che diedero un
impulso essenziale al pensiero teorico, ma anche dai primi libri di Pierre
Sorlin (Sociologia del Cinema, 1977), da Raymond Bellour sul cinema americano
(1980), Jean-Louis Schefer sulla condizione dello spettatore (L’uomo comune del
cinema, 1980) e da Pascal Bonizer sulla forma filmica (Il campo cieco, 1982).
Inoltre, alla fine degli anni ’70, ha luogo il rinnovamento della storia
cinematografica (Congresso di Brighton, 1978) che fa posto al “cinema dei primi
tempi”. Vari fenomeni cambiano il mio rapporto col cinema, che da cinefilia
diventa ricerca universitaria. La creazione del primo dipartimento di studi
cinematografici in Francia alla Sorbonne Nouvelle nel 1969 segna un cambiamento
decisivo nella maniera in cui il cinema sarà ormai pensato. Come è stato già
osservato da Francesco Casetti (Teoria del Cinema, 1993), il cinema è ormai
oggetto di un triplo investimento. È accettato come fatto di cultura divenuto
finalmente legittimo; è sottoposto ad una specializzazione del discorso che
subisce l’influenza delle scienze umane; e, infine, il fenomeno si diffonde su
scala internazionale. Paradossalmente, non sono mai stato tentato dalla critica
cinematografica, poiché fin da subito attirato dal versante teorico. Questo
forse è dovuto alla mia formazione universitaria dove si affiancano filosofia,
storia dell’arte e letteratura moderna. I miei primi testi sono quindi fin da
subito analitici e teorici. Il mio primo saggio sul cinema Figurazione dell’inumano
(1992), edito dal Presses Universitaires Vincennes nella collezione Hors Cadre
diretta da Marie-Claire Ropars, è dedicato alle possibilità plastiche della
figurazione umana nel cinema. Non mi sono mai allontanato da questo approccio
ragionato al cinema: il mio ultimo libro, edito presso le Presses
Universitaires de Rennes in questo mese di agosto, Le cinéma ou le dernier des
arts, presenta un panorama storico dedicato alla maniera in cui il significante
cinema è stato risemantizzato dalla teoria nel corso della sua breve storia. È
chiaro come io abbia conservato lo stesso gusto per la teoria.
A.M.: La
copertina del saggio “Cinema e Pittura” omaggia il film del 1982 “Passion” di
uno dei più grandi registi francesi Jean-Luc Godard. Film che ritroviamo
esaminato nel quarto capitolo con il sottotitolo: “l’elogio dei classici”.
Possiamo affermare che ancora oggi Godard non è stato superato in quanto a
ricerca estetica in connessione con la settima arte?
Luc Vancheri: Jean-Luc
Godard è innanzi tutto un modello e un mito. La sua opera, che è al tempo
stesso critica, teorica e filmica, costituisce, per portata storica, per
profondità estetica ed esistenziale, per forza audiovisiva (È uno dei rari
cineasti ad aver fatto del rapporto tra questi il punto di partenza di una
teoria politica del cinema durante il periodo del gruppo Dziga Vertov) e per
potenza teorica (penso alle Histoire(s) du Cinéma) un’opera totale senza pari.
Con Eisenstein, Vertov, Welles, Pasolini, Tarkovski, appartiene a quella
cerchia di rari artisti che hanno pensato il cinema come un fatto di civiltà al
quale hanno attribuito un messianismo estetico e politico, cosa che non ha
comunque evitato un profondo pessimismo, come per Pasolini alla fine della sua
vita. I film di Godard hanno, del resto, raccontato i momenti essenziale della
seconda metà del XX secolo, sono stati sintomi delle metamorfosi culturali e
politiche che hanno scandito questo pezzo di storia. Prendiamo, ad esempio, Le
Petit Soldat sulla guerra di Algeria, o La Chinoise, che anticipa la svolta
rivoluzionaria del Maggio ’68, o Je vous salue, Marie, che riprende la
problematica religiosa della società occidentale, etc. Tuttavia, il suo
rapporto con l’arte è largamente preparato dal classicismo degli anni da
critico ai Cahiers – lo si è dimenticato, ma i primi riferimenti sono a
Poussin, Crébillon, e Madame Lafayette, come si è dimenticato che a quell’epoca
Godard non esitava a definire anticinematografica la modernità di Bresson e
Welles. Solamente più tardi farà posto alla pittura di Goya, Manet e Delacroix,
che non cesseranno più di abitare la sua opera. Ma anche in questo caso i
riferimenti teorici sono in fondo piuttosto classici. Jean-Paul Belmondo legge
Elie Faure in Pierrot le Fou. Jacques Aumont ha del resto giustamente osservato
che con Histoire(s) du cinéma, realizzato tra il 1988 a 1998, Godard diviene
egli stesso l’Elie Faure del cinema. Il solo vero cambiamento consiste nel
passaggio all’installazione e all’esposizione museale con Voyages en Utopie
(2006) a lui commissionata da Domenique Païni per il Centre Pompidou. Agnès
Varda, Claire Denis, Apichtpong Weerasethakul, Tsai Ming Liang, David Lynch,
Abbas Kiarostami approdano tutti all’arte contemporanea e presentano delle
installazioni in spazi museali. Vediamo allora come Godard sia stato un
osservatore estremamente lucido: allo stesso tempo una Cassandra di un secolo
traumatizzato dalle sue guerre e un infaticabile profeta della potenza
redentrice del cinema.
A.M.:
L’introduzione intitolata “L’arte alla prova del cinema” cita ampiamente “Blow
Up” di Michelangelo Antonioni. Se ai primordi del cinema la contaminazione tra
cinema italiano e cinema francese era estesa e proficua, come vede la
situazione odierna?
Luc Vancheri: Blow up
(1966) è un film paradossale, realizzato e prodotto da due italiani,
Michelangelo Antonioni e Carlo Ponti, che è riuscito a imporre l’immagine della
Swinging London degli anni 1960. Il film segna del resto una svolta nella
carriera del regista che girerà quello successivo negli Stati Uniti (Zabriskie
Point, 1970). Il modernismo colto di Antonioni incrocia la modernità della pop
culture. Non dimentichiamo che fu lo studio di John Cowan, al 39 Prince’s
Place, che servì da appartamento a Thomas, il personaggio interpretato da David
Hemmings. Non dimentichiamo nemmeno il suo arredamento: delle poltrone di John
Wright (Dodo Design), delle stampe di John Cowan, una tela di Alan Davie, Joy
Joy Stick, un'altra di Ian Stephenson, Still Life Abstraction (1957). Antonioni
non si accontenta semplicemente di ispirarsi alle fotografie di moda di David
Bailey, Brian Duffy, Terence Donovan e David Montgomery per la seduta di
shooting di Thomas; ha anche intuito che il cinema poteva essere l’arte che
avrebbe documentato la rivoluzione culturale e artistica degli anni ’60. È
precisamente quello che descrive Antonioni in un’intervista al giornale Playboy
nel novembre del 1967, dove dichiara “tutto quello che so è che siamo
schiacciati da un’accozzaglia di cose vecchie e logore – abitudini, costumi,
attitudini radicate, già morte e passate. La forza dei giovani inglese in Blow
Up risiede nella loro capacità di gettare a mare tutto ciò” (A candid
conversation with Italy’s master of cinematic anomie). Quanto alle prime
fotografie che Thomas porta al suo editore all’inizio del film, sono delle
stampe di Don McCullin, Man about Time, che aveva realizzato un reportage
fotografico sui poveri dell’East London nel 1961. Blow up non si è solamente
imposto come l’emblema chic della pop culture (le modelle posano con vestiti di
Courrège e Mary Quant) o come una reinterpretazione teorica della pop art; è
riuscito a legare due fenomeni estetici differenti. Uno ha a che vedere con il
vecchio conflitto fenomenologico tra fotografia e realtà, qui riletto a partire
dai saggi sull’astrazione in pittura (a questo titolo Still Life Abstraction è
proprio il doppione astratto della fotografia ingrandita nei dettagli di
Thomas). L’altro verte sulla tensione etica che oppone i difensori dell’art
pour l’art e i sostenitori di un’arte sociale e politica (si tratta di una
ripresa della querelle estetica nata in Francia verso il 1830). Ciò che è
interessante in tutto questo è il fatto che sia un erede del neorealismo a
riprendere i fili di questa svolta estetica, fenomeno ben lontano dall’essere
isolato visto che il giallo che nasce nella stessa epoca in Italia è
inseparabile da una riappropriazione della pittura degli anni ’60. Mario Bava e
Dario Argento non hanno semplicemente inventato un nuovo genere
cinematografico, ma hanno profondamente rinnovato i rapporti tra pittura e
cinema. Pauline Mari ha lasciato su questa questione un saggio importante alle
Presses Universitaires de Rennes (Le Voyeur et l’Halluciné, 2018). È evidente
che stiamo parlando di un film-manifesto che ha sintetizzato la sua epoca, un
po’ come L’inumano di Marcel L’Herbier per gli anni venti, o Passione di Godard
per gli anni ’80, o ancora Visage di Tsai Ming Liang per gli anni 2000. Questi
film costituiscono un evento non soltanto perché sono riusciti a pensare
visualmente la loro epoca, ma anche perché hanno identificato i problemi
estetici che questa si pone.
A.M.: Sotto quali
aspetti gli studenti che hanno seguito i suoi corsi presso l’Università di Lyon
2 hanno ispirato “Cinema e Pittura”?
Luc Vancheri: Questo
libro che le Edizioni Negretto hanno appena tradotto è assai vecchio. L’ho
scritto dieci anni fa e posso dire che costituisce la prima fase di un
approccio teorico che ho poi portato avanti e arricchito con un approccio
figurale e iconologico dell’immagine tipico dei miei ultimi libri. Se Les
Pensées figurales de l’image (2011, Armand Colin) è un’esplorazione teorica
dell’apporto freudiano a una nuova analisi dell’immagine che è ormai accettata
nel campo degli studi cinematografici, Psycho. La lezione di iconologia di
Alfred Hitchcock (Vrin, 2013) e La Grande Illusione. Il museo immaginario di
Jean Renoir (Presses Universitaire du Septentrion, 2015) sono due studi
monografici condotti sulle orme di Aby Warburg, autore che Carlo Ginzburg ha
diffuso in Italia ben prima che lo scoprissimo in Francia (Miti, Emblemi e
Spie, 1986). Le mie ultime opere hanno cercato, quindi, di verificare negli
studi cinematografici l’euristica di nozioni elaborate nel campo della
psicanalisi e della storia dell’arte. Mi sono allora interessato alla
figurabilità freudiana così come alle nozioni warburghiane di pathosformel e
nachleben perché esse ci permettono di ripensare la relazione cinema/pittura
considerando la pittura come un archivio visuale delle forme, un repertorio di
motivi, di gesti e di figure delle espressioni umane che il cinema ha
reinvestito e di cui ci importa riprendere la storia. Per precisare un
po’meglio il senso di questa ricerca, posso rapidamente ritornare su Psycho
d’Alfred Hitchcock. È un film saturato di interpretazioni al quale sembra
difficile oggi aggiungere qualcosa. Tuttavia, quando ho cominciato a
interessarmene, fui colpito dal fatto che il quadro che Norman Bates solleva
per spiare Marion Crane non fosse mai stato identificato. Non soltanto non si
sapeva ancora chi aveva dipinto questa variazione di Susanna e i vecchi, ma
soprattutto non ci si era mai domandati cosa la gestualità di Susanna poteva
dirci su quella di Marion Crane durante il suo assassinio nella la doccia. I
due gesti non erano mai stati avvicinati, ma la soluzione di messa in scena
adottata da Hitchcock è una reinterpretazione calcolata della scenografia del
quadro di Willem van Mieris che dipinse la sua Susanna nel 1731. Ciò che
apparentemente sembra essere solo un dettaglio di un’immagine, cioè l’artificio
di un dispositivo voyeurista, è in definitiva la chiave ermeneutica di un film
che si iscrive in una lunga tradizione teologica, liturgica, letteraria e
iconografica. Questa tradizione rivisita il motivo di una Susanna tratta dal
libro di Daniele, allo stesso tempo santa, orante e figura della Chiesa. Ma se
riprendiamo la celebre scena dell’assassinio di Marion Crane sotto la doccia,
ci si rende conto che la sua maniera di lottare contro l’aggressore, Norman
Bates, è estremamente vicina a quella che l’iconografia di Susanna ha
largamente popolarizzato. Marion si dibatte contro Norman Bates come Suzanne si
difendeva dai due vecchi. Il legame tra Susanna e Marion è dunque proprio
quella formula di pathos che ci è mostrata dal quadro posseduto da Norman.
Alfred Hitchcock fa di Susanna il principio di una lezione morale che ci
informa su Marion, che è, per dirla tutta, una cristiana alla quale la grazia è
mancata. Possiamo osservare allora, come, a partire da un solo quadro,
l’iconografia di Susanna e l’ermeneutica biblica sono sopravvissute nel film di
Alfred Hitchcock, come queste si sono legate insieme, cosicché questa intensa
retorica visuale ha giocato un ruolo in una lettura dell’America tra modernità
sociale e arcaismo culturale. Lo studio delle relazioni tra cinema e pittura è
entrato oggi in una fase estremamente ricca di lavori originali e eruditi che
lasciano intravedere un orizzonte di ricerca appassionante. Sono felice di
constatare che i nostri studenti abbiano scelto di dedicarvisi e che ci siano
sempre più tesi su questo tema.
A.M.: La
proiezione delle immagini. Possiamo affermare che la connessione e la
contaminazione descritta nel suo libro parta dalla considerazione secondo la
quale, sin dall’uomo primitivo, proiettare immagini (nelle caverne per esempio)
è un fatto necessario ed indispensabile per l’essere umano per autodefinire la
propria esistenza?
Luc Vancheri: Si ha
l’abitudine di descrivere l’invenzione tecnica del cinema ricordando una
sequenza storica che comincia grosso modo con il Taumatropio del dottor Fitton
(1826) prima di trovare la soluzione con il cinematografo Lumière (1895),
passando per il Fenachitiscopio di Plateau (1832), lo Zootropio di Horner
(1834), il teatro ottico di Emile Reynaud (1888) e il Kinetoscopio di Edison
(1981). Ma il procedimento di Edison è stato rapidamente differenziato da
quello di Lumière facendo valere la proiezione cinematografica come la
condizione essenziale del dispositivo. A partire da questo, ci si è interrogati
sul legame tra proiezione e immagine, poiché si tratta di qualcosa che
ritroviamo già al Rinascimento con la costruzione di una rappresentazione
prospettica. Ci si è persino domandati se l’allegoria della caverna di Platone
descritta nel Libro VII della Repubblica non sia stato il primo riferimento
cinematografico. Ma una tale rilettura della storia del cinema si fonda su un
malinteso. Non bisogna infatti confondere quello che chiamiamo storia del
cinema con la storia degli elementi che costituiscono il suo dispositivo.
Possiamo quindi scrivere due storie distinte se ci si interessa alla filiazione
scientifica che adegua l’immagine cinematografica alle leggi dell’ottica e
della chimica o se si ritraccia la genealogia del pensiero magico che giudica
l’immagine come illusione, spettro o fantasma. La lanterna magica segna questa
esitazione tra un ordine della ragione che deve tutto alla tecnica e un
disordine dei sensi abbandonati a un’incertezza fenomenologica. Quando si
accetta l’allegoria della caverna come “origine possibile” del cinema, ci si
dimentica che per Platone l’immagine è in primo luogo sottomessa a un giudizio
di verità. È sotto la condizione di verità e di ciò che la filosofia può dirne
che l’immagine e la proiezione si ritrovano legati. Il problema non è quello di
Edison e dei fratelli Lumière. Ciò che conta è porsi la domanda di che cosa si
fa la storia quando si attribuiscono al cinema delle origini che superano
largamente il momento della sua invenzione tecnica.
A.M.: Se
l’indagine armonica e la connessione con la pittura è un fattore determinante
per i film descritti nel suo libro, come valuta l’avvento della computer
graphics?
Luc Vancheri: Come
ogni evoluzione tecnologica, la computer graphics ha sconvolto l’economia delle
immagini sostituendo un medium a un altro. Il passaggio dall’analogico al
digitale ha profondamente turbato il modello ontologico dell’immagine
fotografica – alcuni vi hanno visto una morte del cinema, prima che i cineasti
stessi si siano messi a pensare i loro film a partire delle possibilità del
digitale – ma ha anche liberato delle potenze plastiche fin ad ora
inaccessibili. A parità di condizioni, è ciò che aveva compreso Eisenstein
quando si interessava ai film d’animazione e alle produzioni Disney a partire
dall’idea di plasmaticità che dà via libera a un’autonomia figurativa delle
forme, comprendendo come il film d’animazione possa offrire delle risorse per
riflettere sulle potenze formali del cinema. Ritroviamo una tale volontà di
esplorazione figurativa presso dei cineasti assai diversi come Jean-François
Laguionie (Le Tableau, 2011) o Wes Anderson (L’isola dei cani, 2018). Questa
evoluzione tecnologica ci dice che la tecnica è necessariamente il luogo di un
pensiero estetico, cosa che sapevano bene i primi teorici italiani della prospettiva.
Con il De pictura (1435), Leon Battista Alberti non solamente scrive un
trattato di pittura per i pittori, ma rinnova la retorica di Cicerone
attraverso le matematiche e introduce la pittura in un’era nuova, come
osservava C. Dionisotti che riconosceva in Alberti “l’impronta dell’uomo nuovo,
dell’artista e dell’umanista laico, signore del suo mondo, capace di
rappresentare, giudicare e modificare la realtà in ogni suo aspetto, anche
umile” (Chierici e laici, 1977).
A.M.: La casa
editrice Negretto Editore ha recentemente pubblicato in traduzione “Cinema e
Pittura”. Ritiene che il saggio possa aver mercato anche in Italia?
Luc Vancheri: Lo
spero. E ad essere sincero, lo credo. L’Italia è stata il crogiolo della nostra
cultura dell’immagine. Sono dunque molto felice di poter essere letto in
italiano. Ma il mio libro non è che uno dei tanti saggi dedicati alle relazioni
tra cinema e pittura, e mi rallegro che queste siano ancora oggetto di lavori
monografici. Penso ai libri di Moscariello Angelo, Pier Marco De Santi, Silva
Marina Nironi o Mathias Balbi. Penso anche ai miei colleghi in Francia che
proseguono questa riflessione, a Jacques Aumont e alla sua opera essenziale che
ha aperto la via a numerose ricerche – L’occhio interminabile –, a Jean-Michel
Durafour che prosegue un lavoro originale su ciò che definisce l’econologia
(Cinema e cristalli. Trattato d’econologia, 2018), e ai miei dottorandi –
Francesca Capasso, Sébastien David, Aurel Rotival o Pascale Deloche che ha appena
terminato una formidabile tesi sul processo giudiziario sul film La Ricotta di
P.P.Pasolini – che prolungano questa riflessione sull’immagine allargandola al
cinema politico. La letteratura accademica sul cinema è molto cambiata in
questi ultimi vent’anni. Si è notevolmente arricchita ed ha raggiunto un
livello scientifico molto alto. È una bella novità per il cinema e per gli
studi cinematografici in generale.
A.M.: Attualmente
sta lavorando ad una nuova pubblicazione? Può anticipare qualcosa?
Luc Vancheri: Nel mio
ultimo libro Il cinema o l’ultima delle arti (2018), mi sono interessato alle
variazioni storiche del significante “cinema”, cosa che mi ha portato a
rivedere la nostra maniera di pensare la storia del cinema sottolineando tre
momenti strutturali che implicano tre concezioni del cinema molto diverse.
Distinguendo la fase Lumière, la fase Canudo e la fase Youngblood, ho cercato
di mostrare che il cinema, in ciascuno dei suoi momenti, è esistito secondo
rapporti diversi: rapporti sociali, culturali, economici, politici che
disegnano ogni volta una condizione del cinema irriducibile. La tesi che
difendo è questa: riconoscere il cinema come il settimo nella sequenza delle
arti, è accettare l’idea che l’arte sia la condizione storica del cinema. Ma dire
ciò significa, da un lato, considerare che la cinematografia-attrazione
descritta dalla scuola di Montréal designa un’alternativa al pensiero del
cinematografo, dall’altro, che l’expanded cinema esiste senza dovere niente
all’idea di arte come ciò che assicura la regolazione sociale del dispositivo
cinematografico e propone un’altra alternativa, direttamente sottomessa al
regime contemporaneo dell’arte. Il malinteso che oppone i sostenitori del
dispositivo storico ai difensori del cinema allargato si basa precisamente su
questo nodo: se si modifica l’idea di arte che regola il funzionamento
dell’industria e delle istituzioni cinematografiche, è l’idea stessa di cinema
che cambia. E questo genera il cinema di installazione dei musei e delle
biennali di arte contemporanea. Ma questo tipo di cinema è ancora contestato,
anche se alcuni cineasti rivendicano ciò. Mi sembra dunque importante ritornare
sulla maniera di pensare il cinema e di farne la storia. Quanto al mio lavoro
più recente, ho appena finito il manoscritto. Si tratta di uno studio
monografico dedicato a un film di Philippe Faucon, Fatima (2015). Ho cercato di
dimostrare che il film non va ridotto semplicemente al suo tema sociale,
l’immigrazione e la sofferenza sociale dei suoi personaggi, perché dispiega
tutto un insieme di situazioni estetiche che funzionano come occasioni per
riaffermare i legami che vanno dal cinema alla filosofia, alla storia, alla
politica e alla pittura. Ho dunque tentato, a partire dalla polemica
scatenatesi quando il film ha ricevuto il César (2016), di descrivere la
maniera in cui il cinema si introduce nella storia del pensiero, ne modifica le
coordinate e le forme, ne riprende problematiche più vecchie per rileggere
quelle di cui è contemporaneo. Così mi sono deciso a analizzare alcune sequenze
del film ricorrendo ai frammenti filosofici di Eraclito, al De lingua latina di
Varrone, al testo di Benjamin su Nicolas Leskov o ancora al Was ist Aufklarung?
di Kant. Dovrebbe essere pubblicato nella primavera 2019.
A.M.: Salutiamoci
con una citazione…
Luc Vancheri: “Bisogna immaginare Saskia morente e lui nel
suo atelier, appostato su delle scale, cambiando la composizione de La ronda di
Notte. Se crede in Dio? Non quando dipinge.”
“Ciò che è rimasto di un Rembrandt strappato in piccoli quadratini
regolari, e buttato al cesso”.
Jean Genet,
Rembrandt, Paris, Gallimard, 1995, p.77
Traduzione in lingua italiana a cura di Francesca Capasso
(PhD student at Lyon 2 University. Her thesis focuses on the relationship
between cinema and messianism)
Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore
Info
Nella fonte dell’articolo troverete l’intervista in inglese
e francese.
Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Sito Negretto Editore
https://www.negrettoeditore.it/
Acquista Cinema e Pittura
https://www.ibs.it/cinema-pittura-condivisioni-presenze-contaminazioni-libro-luc-vancheri/e/9788895967325
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2018/09/25/intervista-di-alessia-mocci-a-luc-vancheri-la-pubblicazione-italiana-del-saggio-francese-cinema-e-pittura/
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