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lunedì 19 dicembre 2016
EDITORIALE - " LA CADUTA DELLE STELLE " LA FINE DEL MOVIMENTO / DI MARCO NICOLETTI
Le rivolte nascono e si manifestano in maniera imprevista, inattesa, soprattutto spontanea. La maggior parte di esse scaturiscono da eventi minimi, vere e proprie cause occasionali, che esplodono con sorpresa generale. Si affermano e trovano immediata adesione perchè contengono l’esplosiva miscela di rabbia, indignazione, disperazione e impossibilità di farsi ascoltare; veicolano quindi il forte bisogno di un gruppo sociale, di un movimento, di un popolo, di far sentire finalmente la propria voce e presentare pubblicamente le proprie esigenze, istanze.
Le rivolte sono prive di strategia, proprio perchè spontanee. Il potere costituito non teme le rivolte, mai. Lo lasciano indifferente. Le considera delle semplici scocciature, un incidente di percorso; tant’è vero che raggiunto il limite massimo di sopportazione per il sistema, le fa abortire in un attimo; il più delle volte con esiti tragici e una incredibile scia di morte, dove a cadere sono persone innocenti. Si intende, tra i rivoltosi.
La sola idea della rivoluzione, invece, terrorizza il potere costituito. Tant’è vero che in ogni continente, in ogni nazione, in ogni cultura, in ogni secolo, chi gestisce il potere attua dei personali meccanismi di controllo sociale per impedire che possano verificarsi movimenti rivoluzionari.
In una storica lettera scritta al suo fedele amico Friedrich Engeles, il filosofo tedesco Karl Marx condivideva il suo sconcerto e raccapriccio, raccontandogli la sua esperienza a Parigi, nel 1871, quando era stato testimone oculare dell’esperienza passata alla Storia con il termine “la Comune di Parigi”, quando la plebe insorse riversandosi per strada, andando a occupare, per alcuni giorni, i centri istituzionali del potere costituito. Per qualche giorno li lasciarono fare. Infine, quando il potere capì che non avevano nessuna strategia, nessun programma, nessuna struttura, decise di concludere la vicenda. Chiamò la truppa, chiuse le vie d’accesso alle strade del centro e finì l’esperienza rivoltosa prendendo a cannonate la popolazione inerme. Quell’episodio fu decisivo per convincere Marx della necessità di coniugare teoria a prassi, definendo la differenza tra spontaneismo e rivoluzionari.
Le rivoluzioni possono essere di natura molto diversa: di destra o di sinistra, militari o civili, cruente o indolori, violente o pacifiche, ma hanno tutte un aspetto in comune, che è fondamentale: rovesciano il sistema vigente -qualunque esso sia- e ne costituiscono un altro fondando uno Stato diverso. La rivoluzione americana abolì il concetto di colonia dando vita a una repubblica massonica, la rivoluzione francese abolì la monarchia assoluta creando una repubblica di eguali; quella russa cancellò per sempre l’imperialismo zarista creando la gestione nazionale da parte dei soviet; quella fascista cancellò la democrazia parlamentare sostituendola con una dittatura oligarchica monocratica; quella cubana cancellò la oligarchia gestita da un gruppo di affaristi dando vita a una “dictadura bonita”; quella iraniana estinse l’impero persiano, durato più di duemila anni, creando una repubblica islamista. E così via dicendo per tutte le altre. La rivoluzione si manifesta quando un sistema si inceppa, non funziona più, e la classe politica dirigente di quella specifica nazione non è in grado di leggere la realtà apportando, per tempo, le riforme necessarie affinchè lo stesso sistema possa sopravvivere. Il sistema langue, poco a poco si decompone, e quella società si autodistrugge e scompare nel nulla (come avvenne per l’impero romano) oppure risorge dalle ceneri grazie, per l’appunto, a una rivoluzione, che consente di far resuscitare quel popolo, quella nazione, con delle forme istituzionali, e quindi delle Leggi, degli usi, delle abitudini, delle consuetudini e delle norme, che sono completamente diverse da quelle che esistevano un tempo.
La rivoluzione è una “rottura” dello status quo che non è più ricomponibile. Può avvenire anche in campi delimitati, come ad esempio una “rivoluzione istituzionale”, ovverossia il varo di alcune Leggi specifiche che capovolgono un sistema sociale, abolendone uno ormai stantio che viene sostituito da uno nuovo e diverso.
Tra tutte le grandi rivoluzioni, quella che si distingue per la sua originalità, è stata quella guidata dal Mahatma Gandhi, durata quasi 30 anni, avvenuta 70 anni fa, che nel 1945 portò al successo lo “Swaraj”, ovvero la totale, reale e assoluta indipendenza dal punto di vista economico, spirituale, politico, religioso, finanziario, dalla corona inglese. E’ stata una rivoluzione perchè ha vinto, creando un sistema diverso, finendo in un luogo dal quale non si ritorna più indietro. La sua particolarità consiste nel fatto di aver introdotto il concetto di rivoluzione pacifica, quindi indolore per la popolazione, che ne beneficia soltanto. Il 2 ottobre, il giorno in cui Gandhi è nato, in India è festa nazionale, poichè il Mahatma è considerato il padre della nazione indiana.
L’ultima rivoluzione fatta in Italia risale al 1951.
Dal punto di vista storico, l’ultimo rivoluzionario italiano può essere considerato il democristiano Alcide De Gasperi, il quale, con la complicità di Togliatti, Nenni, La Malfa, Pertini, De Nicola, Baslini, Einaudi, attuò la riforma agraria che spinse l’Italia nella modernità, abolendo per sempre l’oligarchia dinastica dei grandi proprietari terrieri e che consentì la nascita del modello industriale italiano, passando dal concetto di rendita parassitaria a quello produttivo legato all’imprenditoria. Da allora, in Italia, non è mai stata fatta nessuna riforma che abbia cambiato così radicalmente la società.
Possono esistere delle “riforme rivoluzionarie” ma sono rare, anche se molto efficaci.
Si manifestano in momenti particolari di una nazione e, pur comportando un rivolgimento davvero epocale, mantengono la struttura della società cambiandone le regole interne. La legge sul divorzio e quella sulla regolamentazione dell’aborto sono state incisive per la società italiana ma non rivoluzionarie, perchè non sono nate da una radicale trasformazione culturale e, infatti, in ogni momento potrebbero essere messe in discussione, come già sta accadendo, a fasi alterne, con la Legge 194, per l’appunto.
Tutto ciò per dire come, visto il precedente storico e lo spessore individuale di De Gasperi, Togliatti e Nenni, tanto per dirne qualcuno ma ce n’erano almeno altri 20, appartenenti a ogni settore dello schieramento politico, non sia pensabile, tanto meno realistico, immaginare che questo governo sia in grado di portare fino in fondo le riforme rivoluzionarie di cui l’Italia ha bisogno, essendo il sistema inceppato, avvitato su se stesso e quindi impossibilitato ad evolversi.
E’ tardi per piccole riforme e aggiustamenti. La Storia bussa alla porta.
Questa era una necessaria premessa, doverosa, per introdurre l’argomentazione del giorno che qui pongo come domanda, che vorrei rivolgere a tutti gli elettori: “E’ i il M5s un movimento rivoluzionario? E’ in grado di portare avanti la rivoluzione? E quale? E’ questo il suo obiettivo?’”.
In proposito, la mia idea personale è che il M5s è il primo e unico movimento rivoluzionario comparso in Italia dal 1975. Allora esisteva un movimento molto radicato nel territorio, che aveva un rapporto reale, sostanziale, diretto, con contadini, operai, studenti, lavoratori, professionisti, intellettuali. Si chiamava Lotta Continua e, da bravi rivoluzionari, non credevano alle elezioni nè intendevano partecipare a nessuna tornata elettorale. Ma in quel momento, date le circostanze di allora, una rivoluzione poteva essere presa in considerazione soltanto in maniera violenta, il che avrebbe comportato un altissimo numero di morti. E così nel 1976, decise di abdicare alla propria idea rivoluzionaria e decise di diventare riformista. Scelse di appoggiare il PCI alle elezioni. Aveva due affascinanti slogan, uno “e ora e ora potere a chi lavora” e l’altro “lavorare meno lavorare tutti”. Pensò di poter andare a rappresentare l’ala riformista radicale all’interno del PCI che avrebbe prodotto le riforme rivoluzionarie necessarie per cambiare il paese. Non accadde. Da allora in poi, in Italia non è mai più esistito un movimento rivoluzionario e non c’è mai stata nessuna formazione politica, nè di destra nè di sinistra, che abbia avuto il coraggio e la fantasia di varare riforme rivoluzionarie.
I rivoluzionari hanno una strategia a lungo e lunghissimo termine, essendo l’obiettivo quello di capovolgere le istituzioni e cambiare la struttura portante di una nazione, per questo possono deludere chi vuole risultati immediati. A questo è necessario aggiungere quell’elemento particolare geo-politico -e direi decisivo- che rende tutte le rivoluzioni del mondo e della Storia diverse tra di loro: l’unicità locale di quel potere specifico. Ciò che è rivoluzionario nella nazione X non è detto che lo sia da noi, e viceversa. Quindi, il rivoluzionario deve essere un ottimo conoscitore della struttura del potere nella nazione dove opera, visto che lo vuole abbattere per modificarlo. Per questo vince: sa dove andare a colpire. In Italia, il potere ha una sua fisionomia impensabile e davvero inconcepibile a Berlino o a Washington. Da noi, è occulto. Questa è la sua vera natura. E’ consociativo. E’ feudale, in quanto non basato sulla promozione dell’efficienza, affidando la gestione ai migliori, ai più bravi per far funzionare lo Stato, bensì sulla soddisfazione delle esigenze di “chi conta”, ovvero un gruppo elitario molto ristretto che rappresenta le dinastie, cui si fa adeguare la macchina dello Stato. Ed è trasversale. La maggior parte di esse sono occulte. I governi sono composti da individui che, in maggior parte, sono intercambiabili e gli individui che esercitano il potere devono essere mediamente diafani, ragionieristici, poco dotati di senso dello Stato, del tutto indifferenti alle esigenze della collettività.
Da questo punto di vista il M5s è rivoluzionario. Pretende “la trasparenza”; va quindi ad attaccare il potere italiano in uno dei suoi gangli formativi: l’essere occulto. E’ meritocratico, e quindi va ad aggredire la spina dorsale della politica italiana: la promozione di caste dinastiche interne ai partiti dove la personalità umana e il valore degli individui non conta affatto. Pretende “l’efficienza e l’efficacia” ed è quindi pericoloso.
In Italia, i governi non è vero che siano sempre stati incapaci: funzionano benissimo invece. Tant’è vero che le grandi dinastie oligarchiche, nei decenni, si sono arricchite sempre di più e la statistica ci informa che le 5000 più ricche famiglie italiane, nell’ultimo triennio, hanno aumentato il loro patrimonio, in alcuni casi, del 400-500%. In questo periodo, in Italia, esistono nostri concittadini per i quali il miglior governo possibile è quello attuale se, come sembra, sarà un governo che non fa nulla, non combinerà nulla, non cambierà nulla e lascerà tutto come sta. Per questo motivo lo appoggiano, lo sostengono, lo supportano, e fanno in modo che alcuna (molta) stampa gestisca la situazione per far credere che l’attuale esecutivo sia il migliore possibile.
Ecco la vera ragione, a mio avviso, per cui il potere, in Italia, se la prende in maniera così virulenta con il M5s e i suoi militanti, perchè lo teme, lo paventa. Hanno annusato il pericolo che è per loro reale. Si trovano un movimento “anti-colonialista” che vuole diffondere una modalità gandhiana dell’interpretazione civica del far politica, abbattendo i canoni consueti e introducendo “un sistema altro” molto simile a quello proposto in tutto l’occidente nel 1968, che allora fece traballare il potere il quale si sentì dovunque giustamente minacciato. Ma allora prevalse la meravigliosa truffa della guerra fredda, usata, manipolata e applicata da Washington a Mosca, da Praga a Parigi, da Budapest a Roma per impedire il cambiamento epocale. Per questi movimentisti, ciò che conta è “la trasparenza”, l’abbattimento del gioco occulto.
In Italia significa avviare una rivoluzione pacifica e cultural-esistenziale: si va a intaccare la natura psico-sociale della nazione. Le segreterie politiche dei partiti esistenti non sono in grado di fornire risposte di fronte alla progettualità del movimento, perchè le proposte del movimento sono irrealizzabili in Italia: automaticamente comporterebbero l’estinzione dei partiti politici così come sono oggi, composti per lo più come una azienda che gestisce clientele, dedita alla gestione di affari personali e personalistici.
Considero il M5s il primo movimento gandhiano mai esistito in Europa, e forse mai esistito al mondo al di fuori dell’India.
Il fine del movimento consiste nella rivoluzione pacifica, proprio sulla scia di Gandhi.
Perchè il potere costituito ha dimostrato di non volere, di non sapere, di non essere in grado di venire incontro alle esigenze della collettività, perchè l’esecutivo rappresenta solo e soltanto gli interessi corporativi dei propri funzionari; è diventato chiaro a tutti che non verrà mai fatta nessuna riforma rivoluzionaria, il che spinge la popolazione verso la depressione sociale e individuale.
L’idea della rivoluzione gandhiana è un’idea basata su un progetto a lunga scadenza, come ogni rivoluzione che si rispetti. Il Mahatma Gamdhi si è speso per 32 anni. Mao ne ha impiegati 24.
L’obiettivo, secondo me, non consiste soltanto nello stare in parlamento e votare ogni tanto qualche legge migliorativa, solo questo è inutile; l’obiettivo è cambiare questo sistema andando ad attaccare l’immaginario collettivo della nazione, base propulsiva di qualsiasi movimento rivoluzionario. Una rivoluzione culturale. E’ un lavoro lento, complesso, non facile, anche se entusiasmante.
Cambiare uno situazione di Stato di fatto inefficiente, inefficace, inconcludente, autodistruttivo, se non per l’1,8% della popolazione.
Eliminare l’incorporazione del concetto collettivo che identifica nello Stato e nel potere esecutivo i corrispondenti italiani dei colonialisti inglesi, un gruppo di individui che si è impossessato delle risorse del paese, del territorio, e vessa la popolazione indigena locale, ovverosia noi tutti, cioè coloro che pagano le tasse, che lavorano, che producono, e che non perseguono le scorciatoie facili dei “furbi furbetti furboni”.
Poichè penso e ragiono in questa prospettiva rivoluzionaria, ritengo che ciò che è veramente importante adesso,è aumentare la competenza strategica nell’approfondire sempre di più l’obiettivo finale: cambiare.
Il leader del movimento l’ha detto in maniera molto chiara e precisa, se ho capito bene.
E’ avvenuto all’indomani della elezione di Napolitano, quando Grillo ha indetto la sua prima (e unica) conferenza stampa, a Roma, nella sede della città dell’altra economia nel quartiere Testaccio. In verità non si trattò affatto di una conferenza stampa, bensì di una lunghissima presentazione del movimento e della strategia di lungo termine, che si concluse con la seguente frase: “…tenete bene in mente quindi che noi siamo gandhiani….ma non coglioni”.
Personalmente ritengo che la chiave di comprensione del M5s risieda in questa frase.
Si può scegliere di essere un furbo, o aspirare a diventarlo.
Si può essere consapevoli di essere dei coglioni, se ciascuno di noi paragona la propria situazione a quella dei furbi. E’ la strada spianata verso la rabbia livorosa e perdente: al massimo ci porterà a una rivolta (e quindi perdente) o verso la depressione sociale e individuale, perchè colpisce e intacca l’autostima.
C’è una certa strada: la rivoluzione gandhiana.
E’ a lungo termine e non è legata a successi elettorali numerici.
E’ un modello che è addirittura esportabile nel resto d’Europa, a condizione che venga applicato in ogni singola nazione seguendo “la specificità della natura del potere locale”. E’ quindi glocal: il trend post-moderno vincente.
Il fine non è piazzare degli elementi per dar vita a dinastie o, ancora peggio, infilare nei gangli del potere funzionari burocrati per difendere privilegi di antiche dinastie esistenti da secoli. Anzi: è esattamente l’opposto.
Il fine consiste nel dichiarare estinta questa forma di idea dello Stato, della vita politica, della socialità, e di conseguenza dell’esistenza dei cittadini. Esattamente nello stesso modo in cui nel 1930, quando il Mahatma Gandhi iniziò la sua lunga, lunghissima traversata, cominciò a diffondersi nei villaggi indiani l’idea che il dominio inglese non era eterno e che non era scontato e non era per volontà divina che la corona britannica fosse proprietaria delle piantagioni di thè, delle coltivazioni di grano, delle industrie tessili, delle navi da carico, ecc. Fino a Gandhi, i cittadini indiani neppure si interrogavano sul fatto se fosse giusto o meno che gli inglesi gestissero le loro vite. In questi ultimi anni, la grande maggioranza degli italiani (che fossero di destra o di sinistra è irrilevante) hanno pensato davvero che tra Bersani e Cicchitto, D’Alema o Berlusconi ci fossero delle modalità di esecuzione e gestione del potere improntate in maniera diversa se non addirittura opposte o antagoniste. La sola presenza ed esistenza della pattuglia di parlamentari del M5s, molti dei quali erano impreparati e senza esperienza alcuna di dibattito parlamentare, hanno “obbligato de factu” i gestori del potere a comportarsi in modo tale da smascherarsi, evidenziando l’autenticità della propria natura: il totale accordo consociativista, al quale si sono associate spesso finte zuffe, finte liti, finti disaccordi, in verità truffe mediatiche per rabbonire i propri elettori.
Nell’immagine che vedete in bacheca c’è una frase di Gandhi divenuta famosa perchè è il mantra della sua vincente rivoluzione: “siate voi il cambiamento che vorreste vedere nel mondo”.
Si tratta, quindi, di cominciare a cambiare ciascuno di noi.
Si comincia interrogandosi allo specchio per chiedersi: “io, nella mia vita di cittadino italiano, voglio vivere come un furbo, come un coglione, o come un gandhiano?”
E a seconda della risposta che vi darete, capirete subito come leggere un risultato numerico elettorale.
E’ automatico. E garantito.
Marco Nicoletti
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